- Categoria: Critica d'Autore
- Scritto da Super User
- Visite: 11147
Caravan: un'odissea costruita a tavolino
Ovvero l’opinione di un lettore
di Vittorio “Skull” Fabi*
*A pochi giorni dall'uscita dell'ultimo numero della miniserie Caravan, edita da Sergio Bonelli Editore, Fumetto d'Autore vi presenta la versione integrale di un articolo apparso sull'ultimo numero di Comic Soon (NPE) distribuito gratuitamente all'ultimo Napoli Comicon in 50.000 copie. Per gentile concessione dell'autore e dell'editore.
Sgombriamo subito il campo da equivoci: nonostante io sia uno dei lettori più critici della miniserie scritta di Michele Medda, come si può vedere dai miei frequenti interventi in uno dei forum sul fumetto più frequentati d’Italia (http://comicus.forumfree.org), non sono un detrattore a prescindere, per partito preso; le mie critiche partono anzi proprio dal sincero e sentito apprezzamento delle premesse di Caravan.
Innanzitutto l'originalità, quella è indubbia: una miniserie on the road dal taglio realistico basata sulle storie di “vita vissuta” dei protagonisti del viaggio è sicuramente una cosa inedita nel panorama non solo bonelliano ma italiano tout court.
Secondo, la caratterizzazione: i personaggi principali, in special modo l’adolescente protagonista, sono freschi, vivi, privi degli usuali clichè narrativi e anche linguistici tipici del canone di casa Bonelli.
Terzo lato positivo, quello che mi ha attirato di più, l'impostazione "mystery" della miniserie: in Italia non si era mai visto niente del genere, quantomeno nel fumetto popolare; traendo l’ispirazione da serie televisive di grande impatto come Lost o Jericho, l'ambientazione stessa delle vicende presa di per sé è qualcosa di semplicemente esplosivo.
Quarto, ma non certo ultimo, la componente personale dell'autore: a fronte di tante opere del fumetto popolare in cui lo scrittore è praticamente costretto a inseguire il personaggio piegandosi alle sue caratteristiche, o a perseguire storie avventurose che ben poco spazio lasciano all'inserimento di elementi "estranei" quali gusti musicali, cinematografici, o in generale i propri riferimenti culturali, Caravan è strutturato come una vera e propria lavagna bianca da riempire con qualsiasi cosa l'autore voglia; il che è tutt’altro che poco.
Proprio come un tifoso deluso o un amante tradito però, con lo svanire delle premesse per me più avvincenti e interessanti col passare dei numeri, ho cominciato a sviluppare una decisa avversione per lo stile di scrittura utilizzato per questa serie da Medda, autore che altrove ho pur apprezzato molto (Martin Mystere, Nathan Never, Dylan Dog): una avversione che mi ha portato e mi porta tuttora a passare al setaccio praticamente ogni numero della serie in un gioco divertito e vagamente sadomasochista.
Nel dettaglio, e premesso che si tratta ovviamente di un giudizio parziale poiché la serie non è ancora finita (l’albo attualmente in edicola è il numero dieci, mancano due storie alla conclusione), cos’è che non funziona per il sottoscritto nel modo di gestire l’opera da parte dello scrittore?
Per prima cosa la verosimiglianza della situazione: Medda costruisce nel primo numero una serie realistica, basata sulle storie, sulle caratterizzazioni, perfino sul linguaggio di personaggi molto verosimili e ambientata in una cittadina degli Stati Uniti immaginaria nel nome ma non certo nella sostanza. E da lì, non con l’evento cataclismatico che scatena la trama principale, ovvero il misterioso fenomeno atmosferico che causa il blackout della cittadina, ma dalle sue conseguenze, comincia la vera e propria odissea nell’assurdo degli abitanti di Nest Point.
Tenendosi volutamente e scrupolosamente alla larga da qualsiasi verosimiglianza, e abbandonando quindi uno dei presupposti fondamentali della serie, lo scrittore si inventa una vera e propria deportazione militare di massa all’interno di quello che è praticamente il Paese più democratico del mondo: i cittadini sono costretti senza alcuna spiegazione ad abbandonare le loro case, a caricare il minimo indispensabile sui propri mezzi e a iniziare una marcia interminabile scortati dai militari: chi tragredisce viene addirittura ucciso sul posto, senza pietà.
Ora, non bisogna certo essere degli esperti sulla società americana per capire quanto questa situazione sia completamente campata in aria: lasciamo perdere il discorso giurisdizionale in caso di un evento cataclismatico su suolo americano, che dovrebbe essere gestito dalla FEMA (Federal Emergency Management Agency) con l’eventuale supporto della Guardia Nazionale (l’Esercito che agisce all’interno degli Stati Uniti) e non direttamente dai soli militari; ma tutto il discorso di quella che non è affatto un’evacuazione, la quale solitamente ha termine nel giro di qualche chilometro dall’epicentro dell’evento e consta di un accampamento dove far sostare gli sfollati nell’attesa della normalizzazione della situazione, ma una vera e propria deportazione militare con annessa sospensione di tutti i diritti costituzionali, il tutto come dicevamo senza nemmeno uno straccio di spiegazione e portato avanti per settimane e settimane, rende l’idea di quanto siamo lontani da una pur minima parvenza di realismo dell’ambientazione.
Per di più Medda si guarda bene da fornire al lettore un qualsiasi riferimento geografico o temporale, e costringe la lunga carovana di macchine, camper e mezzi militari a vagare in maniera del tutto inverosimile in un vero e proprio limbo fatto di paesaggi perennemente deserti, in un Paese che per quanto non tra i più densamente popolati al mondo ben difficilmente potrebbe concepire il passaggio inosservato e indisturbato di un simile serpentone.
Dove sono gli altri americani? Possibile che la carovana non incontri nemmeno un villaggio, un centro commerciale, un’abitazione isolata?
Sarebbe ovviamente importantissimo, se ci mettiamo nei panni degli sfollati, capire se la vita altrove sta scorrendo normalmente e quindi sono solo loro a vivere quella assurda situazione, oppure se altre cittadine o altri centri abitati sono di fatto deserti come la loro Nest Point.
E invece niente: nemmeno un distributore, nemmeno un cartello stradale. La carovana viaggia nel nulla.
In tutto questo, l’assurdo nell’assurdo: ben lungi dall’essere preoccupati o addirittura annichiliti dalla perdita, per quanto apparentemente momentanea, della propria casa, del proprio lavoro, delle proprie vite, per quanto costretti a vivere in macchina per settimane, senza potersi lavare, facendo la fila per i pasti, facendo le proprie necessità a lato della strada, i cittadini di Nest Point sono di una tranquillità semplicemente disarmante: chiacchierano del più e del meno, ricordano il passato, raccontano qualsiasi cosa passi loro per la mente (la frase “E’ una lunga storia. Ti va di sentirla?” sarà il vero e proprio leit motif della serie), insomma vivono una vita serena e assolutamente distaccata dalla pur sconvolgente realtà della situazione, e il tutto senza la benchè minima protesta se non un iniziale e blando tentativo da parte del sindaco, subito esautorato e messo a tacere dai militari tramite uno scandalo costruito appositamente.
Ecco infatti in tutta la sua chiarezza il secondo problema di Caravan, il realismo nel comportamento dei personaggi: come può essere infatti credibile e realistico il comportamento sia dei protagonisti che dei personaggi minori, come può suscitare immedesimazione e quindi emozione nel lettore, quando invece agiscono tutti in maniera completamente distaccata dalla situazione che stanno vivendo, e quindi di fatto falsata?
Mistero. Molto più mistero questo di quello delle strane nuvole che hanno dato via al tutto.
E questa incrinatura notevole nella credibilità della serie ci conduce dritti al terzo, e forse più emblematico problema di Caravan, la pretestuosità: l’ambientazione letteralmente “chiusa in macchina” porta i personaggi a parlare tantissimo, dicevamo, e a ricordare ancor di più; il tutto in maniera disunita, frammentaria, in ultima analisi artefatta.
Quindi in quello che sembra spesso un vero e proprio uso eccessivo del meccanismo del flashback troviamo cantanti rock belli e maledetti, abuso di alcool e di droghe, abusi familiari fin dalla tenera età e conseguenti vite travagliatissime, ma anche l’Italia degli anni di piombo sovrapposta e confusa con quella ben diversa dei rampanti anni ’80, la liberazione di Roma nella seconda guerra mondiale da parte degli americani e il bombardamento alleato della scuola elementare di Gorla, lo spiritualismo degli Indiani d’America e il fanatismo di ufologi socialmente disadattati, e perfino due intramontabili classici dell’immaginario americano come i serial killer e la guerra tra gang giovanili.
Il tutto trattato, come se non bastasse, in maniera fin troppo stereotipata e lontana da qualsiasi guizzo di originalità, con un linguaggio quasi “da fiction Rai” e con un senso imperante di deja-vu per chiunque abbia una cultura poco più che minima in campo narrativo o cinematografico.
Quello che nelle premesse e in una normale ottica di equilibrio tra le componenti narrative doveva essere solo un elemento, ovvero l’innovativa possibilità da parte dell’autore di parlare liberamente dei propri interessi, dei propri riferimenti culturali ed autobiografici, è diventato invece non tanto e nemmeno il piatto forte della serie quanto il piatto unico.
Arrivati quasi alla fine dell’opera possiamo quindi appurare quanto fosse e sia tuttora fuorviante il lancio pubblicitario che attirava e continua, in calce alle altre pubblicazioni dell’editore milanese, ad attirare lettori con una buona dose di mistero e di avventura nella più classica delle tradizioni Bonelli: il mistero e l’avventura hanno caratterizzato infatti solo l’incipit della serie, in un primo numero in cui i vari elementi della serie erano per altro miscelati molto sapientementemente dallo scrittore, e hanno subito ceduto il passo e senza ripensamenti a una congerie di microstorie minimaliste che fanno quasi pensare ad un vero e proprio flusso di coscienza dell’autore, volto a fermare su carta ora uno spunto narrativo rimasto nel cassetto ora un qualche interesse del momento.
Emblematico a riguardo il racconto che fa Medda stesso della genesi della ministoria sulla strage di Gorla, suscitata da una passeggiata nei pressi dell’inquietante statua che ricorda la tragedia: d’accordo, si tratta di una storia importante e fin troppo misconosciuta, ma cosa (diavolo, mi verrebbe da dire) c’entra con una cittadina americana evacuata dai militari in seguito ad un evento atmosferico pseudo-apocalittico e scortata senza spiegazioni verso una destinazione ignota?
Questa scoperta pretestuosità della serie, confermata dallo stesso autore in alcune interviste (Lo Spazio Bianco, Mega), questa odissea costruita forse un po’ troppo a tavolino e fatta di personaggi che mostrano spesso, necessariamente, i fili che li muovono come burattini, mina secondo me senza scampo la sospensione dell’incredulità nei confronti della vicenda, rompendo il tacito patto autore-lettore con tutte le conseguenze del caso.
A mio avviso sarebbe forse bastato proseguire nel solco nel primo numero, mantenendo un equilibrio narrativo che sembrava affiatato e accattivante e magari arricchendo l’ambientazione di elementi concreti e verosimili (con qualche ora di ricerca on-line si potevano evitare praticamente tutte le assurdità descritte sopra): il tutto alla ricerca di un realismo compiuto che non può essere solo quello delle storie slegate tra loro o delle caratterizzazioni finalizzate alla trama, se si vogliono suscitare nel lettore smaliziato emozioni altrettanto reali.
Staremo a vedere come finirà quella che è comunque una delle miniserie più interessanti prodotte negli ultimi anni dalla Bonelli; una storia che ha suscitato nella Rete emozioni contrarie e contrapposizioni accese: una storia quindi -a prescindere- decisamente viva.
Nella speranza che rimanga molto più di un esperimento narrativo, riuscito o meno a seconda dei gusti; nella speranza che possa rappresentare una vera e propria nuova frontiera del fumetto popolare italiano.