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Il tango delle anime perse - Dylan Dog #379
di Francesco Ceccamea
Trama: Un assicuratore molto ricco ingaggia Dylan per incontrare di nuovo il fantasma della moglie morta suicida. Dopo un momento di ostilità e diffidenza l’indagatore accetta l’incarico.
Una storia tradizionale, anche se ogni incontro dell’Indagatore con la Nera Signora, ha sempre un certo peso, ma nell’insieme è un albo mediano, da smista palloni. Simeoni se la cava bene in questo e potrebbe anche diventare il nuovo Ruju. Capisco che la prospettiva possa non elettrizzarlo ma abbiamo bisogno anche di Carlo Conti per mandare avanti la TV pubblica, no?
Brindisi invece direttamente dal 2015 rivoluziona il suo stile con dei retini abbastanza discutibili dividendo il pubblico e distraendo non poco da una storia che avrebbe meritato un taglio più prevedibile.
Il tango delle anime perse non scivola mai nel melenso ma risulta in definitiva un po’ freddino. Questi due amanti d’oltretomba che hanno un’umanità pari a uno zerbino rapito dagli zingari sono così poco amichevoli che del loro amore alla fine a noi lettori frega poco. Interessa molto di più capire dove voglia andare a parare lo sceneggiatore, visto che a metà albo capovolge la situazione e ci scombussola il cerebro. La soluzione (che non rivelo) non sembrerebbe farina del sacco di Dylan, così poco avvezzo alla conoscenza informatica ma lasciate ogni incredulità o voi che entrate.
E la mobilitazione della vecchia cariatide medianica, la signora Trelkowsky (chiamata da Dylan, con affetto, Maria) è come sempre determinante (e la scena alla Pulp Fiction con i ruoli sessuali capovolti è a dir poco esilarante). Il viaggio ultraterreno a cui l’indagatore si sottoporrà per venire a capo del mistero fa pensare al vecchio cult Carnival Of Souls, film ultra-indipendente di Hark Harvey (1962) che consiglio di recuperare al più presto, se non lo conoscete. Il rimando al film sembra il luna park fantasma, che nella storia di Simeone è usato come metaforico scenario ultraterreno lugubre e desolante. La stanza degli specchi richiama a Il popolo dell’Autunno di Ray Bradbury e alcune iconografie spettrali sanno anche un po’ di Insidious. Ridendo e scherzando, tra fantasmi irrequieti, la mietitrice in veste e ossa e uno zombi arrabbiato, Dylan Dog ne passa di momenti difficili, solo non si capisce, tra tutti gli ectoplasmi, sebbene ricchi e scontenti, chi paghi il suo onorario.
Riguardo le difficoltà a stare al passo con i tempi (o parlando di vecchi film, qui viene citato The Philadelphia Experiment, datato 1984) è la parte più scivolosa dell’intera impresa di restituire “vitalità” a un personaggio rimasto ingessato in uno spazio dimensionale di china e vinili. Quando lo si avvicina ai computer, lo smartphone e qualsiasi segno del tempo vero che tutti stiamo vivendo, non possiamo smettere di notare le sue Clarks ai piedi e la camicia fuori dai calzoni come andava proprio negli anni 80/90 “reali” in cui Sclavi era Dylan senza i mostri intorno e con molto meno sex appeal.
Però bisogna anche riconoscere la presenza di un hipster (il giornalista che gli manda i file di vecchie notizie interessanti via mail) e soprattutto che la tendenza a resistere al moderno del signor Dog è la stessa di tanti giovani fissati con l’analogico. Diciamo che da questo punto di vista, Dylan, rimanendo fermo al suo posto ha semplicemente vinto, aspettando che il mondo finisse per ripetere se stesso. E quindi lui è oggi più che mai “moderno”, a modo suo. Che continui così.