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La distopia ucronica di “Space Anabasis"
Per aspera ad astra, deinde a caelo usque ad centrum!
La distopia ucronica di “Space Anabasis”: tra i giochi di potere, nella fantascienza del passato
Roma, anno 2770 ab urbe condita: un 2017 d.C. alternativo in cui, come recita la didascalia già dalla prima striscia:
« L’impero ha tenuto il sistema solare in relativa pace. Fino ad oggi. »
Con questa premessa principia la narrazione, sullo sfondo cristallino della Città Eterna: nella fattispecie – si potrebbe azzardare – proprio sempiterna, dato il suo fulgido splendore estetico promanato, dalla commistione tra un’ineffabile archeologia dell’architettura futurista, commisurata ad un impianto urbanistico da far invidia ai migliori progettisti contemporanei; e perdurato incontrastato per quasi tre imperituri millenni: il trionfo del classicismo, col maestoso Colosseo ed altri celeberrimi monumenti latini a far capolino qua e la tra le vignette manifestando vistosamente la gloria di una potenza che, viceversa a quanto pensavamo, non si è mai estinta.
Se qualcuno pensasse pure a posteriori d’aver sbagliato a studiare sui libri di scuola e, naufragato ormai nell’incessante ondata di quel revisionismo storico, figlio spurio e prematuro scaturito dal lupanare delle svariate teorie del complotto che ci hanno investito negli ultimi decenni – e specie nell’era social della post-verità – debba rivedere con ciò le proprie reminiscenze scolastiche, non si preoccupi.
La vera Roma soggiace tuttora parecchio nel degrado, laddove assai meno edulcorata di quella viceversa rappresentata in “Space Abasis”, una sorta di graphic novel a puntate edita per i tipi di “Segni d’autore” e di cui sono usciti sinora i primi due volumi, rispettivamente nell’Aprile e nel Novembre 2017, principalmente sceneggiati da Francesco Vacca. Per gli altri collaboratori si rimanda direttamente alla gradevole lettura di ciascun volume, singolarmente suddiviso in 4 capitoli, internamente ad ognuno dei quali si assiste spesso impotenti all’alternanza ritmata del presente narrativo con ripetuti flashback spiegazionisti, rischiando – si fa per dire – di mettere seriamente in dubbio le conoscenze pregresse di ogni lettore.
Il quale per orizzontarsi nel testo dovrà farne tabula rasa, dando “spazio” – è il caso di dirlo, dato l’argomento – ad una realtà totalmente ucronica la cui giugulare distopica viene parzialmente smorzata dallo stile grafico adoperato che, nonostante sia realizzato da più autori e pertanto arbitrariamente e doverosamente personale, tra i punti a favore appare certamente collettivamente omogeneo, integrato ed in sintonia con la venatura “leggera” con cui la materia è trattata; di contro, troppo spesso quegli stessi tratti paiono spesso un po’ ingenuamente acerbi e naif: a ciò fa da contraltare, per converso, l’apprezzabile colorazione che ne valorizza la ricchezza di particolari e dettagli.
Tuttavia è la storia il vero motore: di un bivector o di quadrivector? Ai centauri – non del mito – il compito di dirimere la quaestio, in altra sede. Quale un automobile club o un raduno di biker del nostro vissuto: o meglio e forse più contestualmente in uno spazioporto, date le circostanze. Crocevia emblematico di snodi commerciali e traffici vari, da qui partono e approdano principalmente i destini della pax romana (l’organismo sovranazionale il cui leader, primus inter pares, è il Cesare romano) che richiama neppure troppo velatamente quella “augustea”.
Essa fu storicamente quell’arco temporale che perdurò dal 29 a.C. quando l’imperatore Augusto considerò concluso il periodo della guerra civile, fino al 180 a.C.; anno cruciale per l’infausta morte di Marco Aurelio che segnò irrimediabilmente la graduale discesa dell’impero negli inferi geopolitici, allorché a quegli successe il figlio Commodo, “degno” erede spirituale degli esuberanti predecessori Caligola e Nerone ed il cui gemello Tito Aurelio nella realtà perì nel 165 d.C., ad appena quattro anni. Nell’universo narrativo a sorti ribaltate di “Space Anabasis” invece fortunatamente gli sopravvive, prendendo il potere in subentro al padre e vagliando almeno due grandi riforme che avrebbero garantito, col senno di poi, la sopravvivenza stessa dell’impero.
Difatti, nonostante persino il plot abbastanza scorrevole e lineare e la presenza di taluni dialoghi talvolta evitabili poiché superflui o contingenti, a rendere davvero interessante quest’opera è soprattutto l’ambigua ed affascinante suggestione suscitata dall’universo alternativo ricreato dall’autore, il quale ripropone in maniera forse troppo azzardata ma senz’altro ponderata e ben congetturata in chiave fantasmagorica da periodo ipotetico del n-tipo, ciò che sarebbe potuto essere se la più grande potenza occidentale del mondo conosciuto non fosse implosa su se stessa per l’incancrenirsi interno del potere medesimo; corroborato e suffragato in ciò dalle invasioni sortite dalle più remote periferie che sgretolarono, sfaldarono, disgregarono ed inabissarono l’S.P.Q.R. capitolino, capitolato in pochi secoli sino a precipitare nell’oscurantismo medievale.
Partendo dai reali eventi e, per associazione di idee e con le dovute differenze, nella vicenda narrata giunge proprio dalle periferie del nostro sistema solare l’ennesima sfida all’impero. Le colonie extraterrestri, site sulle lune dei vari pianeti laddove non sugli stessi, rivendicano al potere centrale della madrepatria terrestre il diritto alla “terraformazione”, ossia la possibilità concreta di ottenere in quei luoghi un’atmosfera di tipo terrestre.
Tuttavia i costi di gestione e mantenimento per la realizzazione del progetto, già riusciti e affrontati in un non lontano passato, avrebbero ripercussioni economiche esorbitanti su scala globale, ragion per cui il Cesare Caio Valerio Sereno rigidamente si oppone; quindi, ottenuto l’appoggio delle fazioni corrotte dell’Esercito e di qualche compiacente e maneggione senatore del Quirinale (tra cui il subdolo Manio Aquillio Floro, la cui figlia Lethi Aquillia Flora è una lesbica comandante putacaso dell’Esercito), il guerrigliero biondo e controrivoluzionario Odder Aker, vichingo colono su Titano (dove la combinazione tra densa atmosfera e bassa gravità consente persino di volare!) e di origini scandinave, irrompe bruscamente con le sue truppe durante una riunione del senato, producendosi in un risolutivo scontro verbale con il Cesare che, negatogli il consenso alla richiesta della terraformazione, viene brutalmente ucciso a sangue freddo da quegli. Comincia dunque la fuga del figlio Lucio, che dopo aver assistito alla morte della madre viene aiutato da un amico sodale all’imperatore appena defunto, tale Yoshiro Sato, un ronin dotato di un’armatura mutaforma, in grado di padroneggiare abilmente la propria katana: ai due si aggiunge presto l’araba Fatima Claudia, comandante della Guardia Pretoriana ed un collega.
Spostandosi tra le superstrade a levitazione di un mondo che ha scisso l’atomo, il ronin insegnerà l’arte del combattimento al giovane erede, cresciuto però secondo i dettami della filosofia stoica e quindi portatore sano di un sapere umanistico che convergerà, con l’ausilio del senatore greco Decimo Antiochio, fedelissimo del padre, nella visita alla mitica biblioteca di Alessandria. Dove Lucio apre l’ipercubo rinvenendo finalmente in Marte, il pianeta rosso, la meta del loro viaggio picaresco e di formazione riassumibile, nient’affatto semplicisticamente, nella congiunzione – quanto mai – astrale e temporale assieme, tra due celebri locuzioni latine: Per aspera ad astra, deinde a caelo usque ad centrum! Ossia: attraverso le asperità sino alle stelle, poi dal cielo fino al centro.
Frattanto che l’usurpatore vichingo già proclamato imperatore romano ordina la caccia spietata dei fuggitivi e alcune fazioni dei pretoriani gli si fingono temporaneamente alleate per agevolare la fuga di Lucio e compagni, gli immarcescibili senatori (vagamente rimembranti la nostra oligarchica classe politica da terza repubblica) eludono momentaneamente le rivalità intestine tra “sereniani” ed “auxiani” (un po’ come dire guelfi neri e bianchi) per volgere a proprio favore il nuovo assetto sociale, ciascuno mirando a specularvi e, per le strade della metropoli, i tribuni dall’uniforme vagamente nazifascista segnano il trionfo del più impensabile razionalismo dalla distopia ucronica, nella fantascienza del passato.
Roberto Scaglione