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- Scritto da Giuseppe Pollicelli
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Capitan Harlock all'arrembaggio con la sigla TV
di Giuseppe Pollicelli*
Doveva essere il 1995 ed eravamo nella sede romana della casa editrice Donzelli, che all’epoca fungeva da punto d’appoggio per i collaboratori di un’effimera rivista diretta da Goffredo Fofi, «La terra vista dalla luna». Io facevo parte del giovanissimo comitato redazionale e, durante una riunione, si finì non so come a parlare delle sigle italiane dei cartoni animati giapponesi, contro le quali Fofi si affrettò a scagliare uno dei suoi famigerati strali, definendole omologanti e diseducative poiché emanazioni del potere corruttivo della cultura di massa. L’anatema non mi convinceva per niente e allora, benché gli altri redattori (tra cui il già bravissimo Emiliano Morreale, oggi Conservatore della Cineteca Nazionale e critico cinematografico di «Repubblica») assentissero in silenzio, mi feci coraggio e, malgrado i miei vent’anni, osai contraddire l’autorità. Presi la parola e domandai a Fofi se gli capitasse mai di ricantare le canzoni popolari che, da ragazzino, ascoltava nella sua Gubbio. «Certo che le canto», disse lui. «Ecco, è la stessa identica cosa», gli risposi. Probabilmente senza convincerlo e, certamente, senza ottenere la solidarietà degli altri ragazzi, i quali però, ne sono sicuro, la pensavano come me. Anche se ho dovuto attendere quasi vent’anni, sono lieto che adesso un libro confermi che avevo ragione. Si tratta del saggio Cartoon Heroes. Gli artisti di trent’anni di sigle TV (pp. 144, euro 14), appena pubblicato da Kappalab e scritto da due esperti della materia: Mirko Fabbreschi e Fabio Bartoli. Gli autori, il primo leader della band dei Raggi Fotonici (specializzata nell’esecuzione live delle più famose sigle di disegni animati nipponici) e il secondo studioso di comunicazioni, spiegano in modo convincente che la composizione di una bella sigla è operazione che non ha nulla di meno nobile rispetto alla composizione di un bel pezzo di musica leggera: in entrambi i casi occorrono ingegno, inventiva, mestiere, capacità di rivolgersi al proprio pubblico di riferimento e, ovviamente, un’apprezzabile conoscenza della musica. Non a caso, alla creazione di tante sigle di disegni animati giapponesi hanno contribuito fior di musicisti come Vince Tempera, Riccardo Zara, Nico Fidenco, Detto Mariano e i fratelli De Angelis. In questo specifico ambito, la produzione italiana ha toccato livelli di eccellenza sconosciuti agli altri Paesi occidentali, dando vita a un vero e proprio genere a sé stante che è anche un capitolo di rilievo nella storia della nostra musica pop e commerciale. Brani memorabili come Jeeg Robot («Corri ragazzo laggiù, / vola tra lampi di blu, / corri in aiuto di tutta la gente / dell’umanità…»), Capitan Harlock («Capitan Harlock! / Capitan Harlock! / Capitan Harlock! / Un pirata tutto nero che per casa ha solo il ciel / ha cambiato in astronave il suo velier (urrà!)…»), Daitarn 3 («Uno per tre e tre per uno perché / insieme noi usciamo sempre dai guai / e difendiam la terra dall’ombra della guerra…»), Ken il Guerriero («Mai, mai, scorderai l’attimo, la terra che tremò, / l’aria s’incendio e poi silenzio. / E gli avvoltoi sulle case sopra la città, senza pietà…»), Lady Oscar («Grande festa alla corte di Francia, c’è nel regno una bimba in più…), Mimì e le ragazze della pallavolo («Mimimimimì con le mani tiri come uragani / di avversari tu non ne hai più, / quanta fatica arrivare lassù ma stasera chi vince sei tu…»: la si immagini cantata con testo in inglese e un arrangiamento più lento, non è inferiore a Take My Breath Away), alcuni dei quali reincisi in versione acustica da gruppi storici quali i Cavalieri del Re e i Superobots nel prezioso cd allegato al libro, hanno un ruolo di primo piano nella personale colonna sonora di milioni di persone. Sulle quali esercitano, per dirla con Pasolini, il potere «abiettamente poetico di rievocare un tempo perduto». In molti lamentano che le odierne sigle italiane dei cartoni giapponesi non abbiano la stessa forza, la stessa originalità, la stessa compiutezza di quelle di venti o trent’anni or sono. A parte che in futuro chi è oggi bambino la penserà forse diversamente, se così fosse non ci sarebbe da stupirsi: l’età dell’oro delle sigle è paragonabile a fenomeni come la nouvelle vague nel cinema, i quali si producono per l’azione concomitante di fattori culturali, sociali e storici che non sono ripetibili. Nella sua prefazione al libro, Vince Tempera sottolinea giustamente che, quando gli fu affidato l’incarico di comporre Ufo Robot, aveva davanti a sé un territorio completamente vergine in cui sperimentare. Perciò, se nessun altro cartone animato potrà mai godere di una sigla potente come quella dell’Uomo Tigre, non ci si deve rammaricare. È normale, e giusto, che sia così.
*Articolo tratto dal quotidiano Libero del 6 marzo 2013. Per gentile concessione dell'autore.