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L'altra sponda del fumetto
Meno complesso, anche se non privo di spunti, lo stato dell’arte nell’omofumetto di casa nostra. Se la Kappa Edizioni dal canto suo ha scelto di dare spazio ai soggetti di un autore sensibile e rodato sul tema come Massimiliano De Giovanni, una Coniglio Editore reduce dai fasti erotici di Blue ha varcato già da qualche anno il Rubicone del sexual gender con l’esperimento di Happy Boys, rivista-contenitore apertamente dedicata all’universo omosex e impolpata da un ampio ventaglio di autori: dalla giovane Giulia Argnani, riconoscibile per il tratto pulito e deciso “alla Enoch”, alla ligne claire di Hergé interpretata in chiave omo dal francofono Tom Bouden, ai grotteschi ed efficaci Chelsea Boys del team Glen Hanson/Alan Neuwirth, pluripremiato comic dal quale verrà presto tratta anche una serie d’animazione. Il tutto senza contare prolifici artigiani underground come Valeriano Elfodiluce, che alle comparsate su carta alternano l’avanguardia espressiva della pubblicazione direttamente su Internet (Rainbows, Robin Hoog).
Fine, o quasi. Lo spazio è tiranno e per sommaria e lacunosa che sia, la digressione sull’“altra sponda” della letteratura disegnata potrebbe anche terminare qui, rimandando senz’altro per eventuali approfondimenti al ricco saggio di Susanna Scrivo “Nuvole e Arcobaleni. Il fumetto glbt”, da poco pubblicato per i tipi editoriali della Tunué. A margine, e senz’ombra di riferimenti polemici, solo una piccola riflessione su un fenomeno ben poco virtuoso che ovviamente non è specifico del fumetto gay ma può estendersi al cinema, alla prosa, all’arte in genere. Quando ci si muove su un orizzonte tematicamente circoscritto ma socialmente sensibile – che sia l’omosessualità, il razzismo o il terremoto in Abruzzo importa poco – accade talora che opere di levatura egregia ed assolutamente comparabile a quella del miglior fumetto generalista si trovino a convivere, nei giudizi ieratici di qualche critico non imparziale, con prodotti decisamente più grossolani, sortite dilettantesche che certe valutazioni di parte (o magari addirittura “di genere”, come nel caso in esame) ricoprono talora acriticamente di elogi e consensi unicamente in virtù dell’aderenza ai canoni di una predeterminata tesi comune, o comunque di un generico “politicamente corretto”. Credo che questo non faccia bene al mondo dell’arte in tutte le sue forme, e che ogni opera vada giudicata sulla base dei propri meriti e non delle pur condivisibili aderenze a questa o quella causa. Tutti uguali dunque e, proprio per questo, tutti allo stesso nastro di partenza: il guadagno, in termini di onestà intellettuale, sarà di certo superiore alla spesa.