Fumetto d'Autore ISSN: 2037-6650
Dal 2008 il Magazine della Nona Arte e dintorni - Vers. 3.0 - Direttore: Alessandro Bottero
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RECENSIONE COLORTEX NUMERO 14

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E' tempo di guardare la vita a colori.

Perché leggere Tex vuol dire anche questo: mettere da parte, se la gravità dei guai che ci affliggono non consente di farli proprio sparire, almeno per un po', i problemi della vita quotidiana, dai grattacapi che riguardano la nostra salute alle beghe sul posto di lavoro.

Uno dei “super-poteri” del Fumetto è proprio quello di avere la capacità di aiutare a scrollarci di dosso i pesi che portiamo sulle spalle, come si alleggerisce della sella un cavallo dopo una lunga sgroppata. E' uno dei “segreti” che accomuna noi che ci definiamo Texiani.

Per di più non ha importanza se talvolta i pareri dei singoli sono discordanti: ogni lettore ha la facoltà e il diritto di dire la sua, così come chiunque altro può replicare, e quando si rimane nell'ambito della conversazione amichevole condendo le parole di buon senso e cordialità (beh, le eccezioni ci sono ovunque), anche se ci si trova in disaccordo, è un piacere confrontarsi e rendersi conto che siamo tutti sullo stesso piano. Tex infatti ci rende tutti uguali, tra “aficionados” del West fatto di carta e polvere, china e piombo, senza quindi tener conto di differenza di età, sesso, razza, provenienza o credenze. Non è la prima volta che lo dico: Bonelli non a caso fa rima con fratelli.

Ok, questa sviolinata era per dire che la chiacchierata di oggi verte sul quattordicesimo ColorTex, uscito prima di Natale 2018, nel bel mezzo delle celebrazioni per i 70 anni del Ranger. Come da tradizione per quanto riguarda questo formato invernale, il volume contiene più storie brevi, ben 5, caratterizzate ognuna da particolari peculiarità che le rendono in qualche modo uniche, sebbene in nessuna di esse manchi una buona dose di azione: dagli sganassoni agli assoli di “clarinetto” per Colt o Winchester non ci sarà certamente tempo per annoiarsi.

Anche se con facile previsione la maggior parte di voi ha già letto l'albo, non starò qui a sciorinarvi un elenco di mini riassunti, non è nel mio stile, e neanche affronterò i racconti nell'ordine nei quali compaiono. Lungi da me creare una classifica, mi sento però di esprimere un parere del tutto personale che inevitabilmente differenzia le varie avventure.

Ce ne sono due che per me potrebbero venire descritte con una sola parola. Esattamente, facendo felici tutti quelli che mi considerano, e hanno anche ragione, un po' prolisso basterebbe semplicemente dire una sola parola per recensirle: perfezione.

Seppur del tutto diverse come stili e trama le avventure intitolate “L'Apache bianco” e “La casacca magica” a mio avviso raggiungono livelli che rivaleggiano con l'Everest sia graficamente che per quanto concerne la sceneggiatura.

E non devo essere il solo a pensarla così, dal momento che proprio queste due storie sono le prime che ritroviamo leggendo l'albo.

 

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Il Mito. Disegno di Lorenzo Barruscotto, tributo a CIVITELLI.

 

L'Apache bianco” è disegnata da un vero maestro del fumetto italiano e non solo, Fabio Civitelli, nel doppio ruolo di autore sia delle chine che dei colori. Stavolta non sono i Pards ad andare in cerca di guai ma sembra quasi il contrario: i guai, sotto forma di un gruppo di spietati pendagli da forca e ladri di cavalli, hanno la bella pensata di giocarsi la pelle mettendo in piedi un pericoloso piano che prevede la presenza proprio di Tex, in quest'occasione affiancato da Tiger Jack.

Davvero? Voglio dire, siete già fortunati (e uso il termine “fortunati” con tono sarcastico perché già per quel delitto facciamo il tifo affinché la giusta punizione cali sulle loro balorde zucche e cancelli da quelle facce da galera il sorrisetto soddisfatto sfoggiato dai componenti della banda dopo aver stroncato vite innocenti senza neanche distinguere tra uomini e donne) ad aver messo a segno un colpo ai danni di uno sparuto gruppo di indiani, col binocolo scorgete da lontano il Ranger ed il suo fratello di sangue ed invece di fare di tutto per passare inosservati pregando il vostro diavolo protettore che proseguano per la loro strada essendo loro già impegnati a consegnare un vostro “collega” alle autorità, restando infrattati in qualche buco, cosa fate? La prima idea della vostra vita che si fa strada tra la muffa che avete in mezzo alle orecchie è quella di fare soldi cercando di fregare un tipo come Tex Willer? Ma allora ve la andate proprio a cercare, coyotes!

La trama è ideata da Chuck Dixon, a noi noto per il suo lavoro sul Cartonato “Cinnamon Wells” e sulla storia che avrebbe dovuto essere la prima in solitaria di Kit Willer, ma che alla fine non lo era, apparsa sul Magazine 2017 ("Terrore tra i boschi", illustrata da Michele Rubini). Lo ammetto: dopo aver appreso il nome dello sceneggiatore all'inizio sono rimasto piuttosto titubante, dal momento che, proprio come conseguenza della lettura del Cartonato, ogni volta che apro l'armadio ne esce la mezza dozzina di grossi punti interrogativi che si erano formati sulla mia testa una volta giunto all'ultima pagina. Invece sono rimasto piacevolmente sorpreso, e contento, nello scoprire che il mal di denti che probabilmente aveva afflitto l'autore americano in concomitanza con la scrittura della storia nel formato “francesizzante” deve essere ormai un ricordo.

La vicenda, nonostante si tratti di una storia breve, è avvincente e ci coinvolge senza quasi lasciarcene accorgere. Il lettore viene messo a parte di dettagli che i due Pards ignorano, pur subodorando che qualcosa non va, al di là dello shock che il loro “protetto” dimostra essendo convinti di quello che in realtà non è, ma a dire la verità lo è in parte. Lo so, non risulta semplice dirlo senza spiattellare tutto. Veniamo invasi dal vero e proprio impeto di voler interpellare direttamente Tex e Tiger per fornire loro una dritta su quello che sta realmente accadendo, sperando d'altra parte che il giovane protagonista che ispira anche il titolo all'avventura non faccia nulla di troppo avventat… maledizione, lo ha fatto, allora che almeno non faccia niente di troppo stupido. Però non è colpa sua: né l'essere sospettoso né venire forzato a proseguire in un inganno apparentemente a prova di bomba. Non ha scelta, se vuole salvare la vita di qualcuno che gli è molto caro. Anzi, il sostegno di Aquila della Notte e del suo pard Navajo sono naturalmente determinanti ma il ragazzo si dimostra dannatamente abile, considerando la situazione in cui è venuto a trovarsi ed il suo comportamento è del tutto comprensibile e plausibile.

Ho avuto modo di leggere alcune critiche sul fatto che Tex esprime un giudizio lodando il modo sbrigativo ma senza dubbio efficace con il quale “lo sbarbatello”, come direbbe Carson, riesce a “superare un ostacolo” (ci siamo capiti). Secondo me, visto cosa ha dovuto subire e le perdite che ha affrontato, ha invece agito proprio come un guerriero. Non si va per il sottile con chi ti ammazza mezza famiglia e minaccia di far fuori anche l'altra metà.

Civitelli, se ce ne fosse ancora bisogno, dimostra di essere un drago anche ai colori: le sue vedute con gli sfondi ad acquerello, le sfumature rese dalle diverse tonalità cromatiche sui volti per donare loro spessore, i contrasti tra la fioca luce di una lanterna, il buio di una strada in una notte senza stelle o di contro il bagliore della luna che rischiara una pista nella prateria illuminando i lineamenti dei personaggi con una tonalità cupa, la quale riflette le emozioni che la scena vuole trasmettere al lettore… devo aggiungere altro? L'arte di Fabio Civitelli è talmente raffinata che sembra ricreare perfino i suoni delle sequenze realizzate, e non mi riferisco solamente alle detonazioni degli spari. So che forse questa frase sembra non avere senso ma so anche che i Texiani che lo sono fino al midollo staranno annuendo in questo momento.

La location principale della vicenda è Tucson, quindi abbiamo la possibilità di ritrovare un nostro amico, lo sceriffo Tom Rupert, in gamba come sempre, impegnato nella quotidiana attività di tutore della legge che consiste nel mantenere l'ordine in una città della Frontiera. La conclusione se mi concedete una visione forse non propriamente corretta, per me è divisa in due finali, uno dentro l'altro, poichè con un fulmineo ma non per questo meno intenso scontro a fuoco si arriva a tagliare la testa ad un bel gruppetto di serpenti ed al contempo, grazie alla comprensione di Tex unita al buon cuore di persone generose, si può affermare che “tutto è bene quel che finisce bene”.

L'ultima tavola è muta ma, per usare una tipica espressione “da duri del West”, vale più di mille parole. Parole che, però, nei dialoghi vengono incorporate con la usuale abilità e precisione da Luca Corda, che ci ha abituati oltre alla sua genuina simpatia quando scambia due parole con il pubblico dimostrando di essere lui stesso un artista ed un appassionato, anche e soprattutto al suo lavoro di lettering ordinato e puntuale.

 

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Ritratto di Fabio Civitelli ad opera di Lorenzo Barruscotto

 

L'avventura intitolata “La casacca magica” è il secondo sinonimo di “eccellenza” di cui il Texiano può godere leggendo questo volume. Ai disegni c'è un maestro, probabilmente Jedi, visto il talento e la bravura nel ricreare le atmosfere delle “nostre parti", dalle assolate piste della Riserva ai deserti dove neanche crotali e scorpioni potrebbero fare a meno di sudare e sognare una bibita fresca, che non ha bisogno di presentazioni: Lucio Filippucci.

Le espressioni, la dinamicità e l'organizzazione delle tavole, la cura per i dettagli costruiscono letteralmente attorno al lettore l'ambientazione della vicenda e sembra realmente anche a noi di stare seduti attorno al fuoco tra gli hogan del villaggio centrale ad ascoltare il sakem bianco dal cuore rosso che insieme a Tiger Jack rievoca a beneficio di Carson le gesta di un grande guerriero.

E pensate un po' si tratta di un episodio riguardante l'infanzia di Piccolo Falco. Già questo sarebbe magico di per sè, senza giubbe di pelle benedette dagli spiriti o da Manito in persona. Se poi aggiungete, in una sorta di matrioska di racconti, una spolverata di riferimenti storici, una leggenda indiana narrata ai giovani ragazzini Navajo da parte di un valoroso e simpatico “vecchietto”, amico niente meno che del grande capo Freccia Rossa, cioè il nonno di Kit, beh, gli ingredienti per qualcosa di speciale ci sono tutti.

A quali rimandi ad eventi reali mi riferisco? Presto detto: nel lungo capitolo che viene sommariamente nominato “le guerre Navajo” non si contano le battaglie intervallate a fasi alterne da “(in)utilissimi” trattati: in sostanza un elenco costellato di spedizioni “punitive” o preventive attuate contro la “nostra gente” da parte di volontari ma anche di truppe regolari del caliente Mexico da un lato e di incursioni di pellerossa in territorio prima messicano e poi passato sotto il controllo degli Stati Uniti dall'altro, spesso anche in risposta agli attacchi subiti. Si comincia dal Diciassettesimo secolo per arrivare alla metà del Diciannovesimo, cioè alla seconda parte del 1800, quindi come tempi ci siamo. Esistono perfino documenti spagnoli che testimoniano scontri con i Navajos datati 1500, ma potete giurare che sono stati, come dire, edulcorati rimaneggiando gli episodi che vedevano i “nostri” dalla parte della ragione.

La sceneggiatura è stata partorita dalla vulcanica mente di un'esordiente sulle pagine di Tex, Gabriella Contu. Giù il cappello, gente, e fate spazio nel caso voglia avvicinarsi al banco per unirsi al giro di bevute offerte dalla casa per darle il benvenuto!

L'autrice proviene dalla mia stessa terra, il Piemonte ed è la prima donna alla quale è stato concesso l'onore e l'onere di scrivere una storia di Tex. Mica facile. Per di più nell'anno del suo settantennale. I lettori di fumetti Bonelli ne conoscono già il nome per il suo lavoro sulle pagine di Zagor e Dylan Dog. Non crediate che sia una fragile fanciulla. Ritengo miss Contu una dura ed un esempio: senza dubbio la sua forza di volontà mista ad un certo grado di caparbietà che deve avere chiunque voglia inseguire un sogno (questa, oltre alla regione di provenienza, è una caratteristica che, anche in dosi minori, mi auguro di avere in comune con lei, vale a dire il non possedere la mascella di vetro nei confronti dei diretti che il fato talvolta a tradimento rifila senza troppi riguardi), le hanno consentito di trovare la strada giusta per essere riconosciuta dalle sentinelle ai confini della Riserva guadagnandosi il suo lasciapassare.

A volte si è da soli anche se non si è soli in senso stretto, su un sentiero che è esclusivamente nostro, un po' perché vogliamo che sia così, un po' perché dall'esterno chiunque, anche le persone a noi vicine, si aspettano giustamente dei risultati concreti, magari da direzioni diverse da quella lungo la quale abbiamo spinto il nostro mustang, anche solo temporaneamente. Oppure sembra la strada più lunga, più tortuosa ma è ciò che sentiamo in quel momento. Ovviamente “dopo” se si raggiungono degli obiettivi si ha ragione mentre al contrario ben che vada arrivano i “te lo avevo detto” o comunque gli indici puntati con tanto di teste scosse in modo sconsolato. E' per questo che una volta appreso tramite un'intervista l'iter che ha portato la sceneggiatrice fino alla “nostra” Arizona faccio sinceramente il tifo per lei augurandole che questa non rimanga un'esperienza isolata. (No, non la conosco di persona e finora non ho mai neanche avuto il piacere di scambiarci due parole, se ve lo state chiedendo.)

Tornando alla storia, non ci stupisce che quella testa calda di Kit si metta nei guai. Come lo stesso Tex sostiene più di una volta tra il rassegnato e l'orgoglioso, “...è sempre stato così, impossibile da tenere a freno”. Ci viene perfino offerto un riferimento talmente rapido da sembrare il lampo di uno sparo nella notte, andando addirittura indietro nel tempo fino ai lontani numeri 10 e 11 (“Il tranello” e “Il segno indiano”) quando Tex si trovava in Canada a combattere al fianco di Jim Brandon e Gros-Jean. Tranquilli, non è il caso di mettersi a riprendere il discorso facendola così lunga.

Anche se non citato direttamente può darsi che di sfuggita si veda il purosangue, ancora “anonimo”, che diventerà poi Diablo, il cavallo di Piccolo Falco ma altre incombenze distolgono il padre di quel terremoto in formato bambino da un periodo di meritato riposo dopo l'ultima missione.

I balordi non vanno mai in vacanza. Una banda di tagliagole in fuga o in ogni caso diretti in California attraverso le terre dei Navajos non perde occasione per dimostrare il disprezzo della vita umana specialmente verso coloro che considerano dei selvaggi, accaparrandosi il diritto di fare il bello ed il cattivo tempo sulla pelle di inermi esseri umani. Se esce a noi il fumo dalle orecchie, figuratevi come la può prendere Aquila della Notte. La vicenda viene costruita come se ci fossero più piste che convergono tutte verso un incrocio conclusivo, lo scontro finale al quale tutti aneliamo ma al quale si giunge solo perché chi sa di doverlo fare, per senso del dovere o per onore, segue sempre la via giusta. Arrivando appena in tempo a togliere dai guai un certo moccioso con l'argento vivo addosso che ha fretta di crescere e diventare degno del nome che porta.

Avremo modo di verificare con mano che quelle del “vecchio guerriero” non sono vanterie e che non conviene affatto prenderlo sotto gamba. Anzi, non conviene neanche farlo irritare leggermente: è un Navajo, è un uomo che non conosce la paura, sa scagliare due o tre frecce nel tempo in cui noi ci mettiamo a dire amen, è affezionato al ragazzo ed è un favorito del Grande Spirito. Tirate voi le somme.

D'altra parte la maestria nell'uso del fucile da parte di Tex non ci stupisce, come non ci sorprende neanche la sua capacità, per fortuna, di comparire sempre nel posto giusto al momento giusto. Sebbene impotenti spettatori, il nostro istinto fa correre anche a noi la mano al fianco per afferrare la sputafuoco e cercare di tenere a bada il branco di iene responsabili di orrore e morte.

A contribuire all'impeto della storia ci sono altri due hombres che conosciamo bene: Omar Tuis al lettering, puntuale e senza sbavature, ed il bravo Oscar Celestini, ormai un vero e proprio “compadre”, essendo di casa qui al Trading Post, che si è occupato della colorazione. E' grazie all'unione di due artisti, disegnatore e colorista, che le immagini sembrano uscire dalle pagine: i primi raggi del sole all'alba, la polvere sollevata da cavalli al galoppo, gli spruzzi di un torrente nel quale si lotta per la vita, i pennacchi di fumo all'orizzonte, l'acceso rosso vivo di un falò che pare trasmetterci il calore se lo osserviamo attentamente e le fiammate degli spari rendono tutta questa storia non solo “una storia” ma ci convincono, e noi ci lasciamo facilmente convincere e cullare dall'idea, che sono fatti veri, accaduti a uomini che conosciamo da anni, i quali hanno voluto condividerne con noi il ricordo. L'intensità degli sguardi che la mano di Filippucci riesce a creare donando una vera e propria stilla di vita nei personaggi ci accompagna dai flashback storici a quelli strettamente legati alla vicenda fino al presente, quando i quattro Pards si riuniscono nuovamente per rivolgere un ultimo pensiero in onore di un amico.

 

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Ritratto di Lucio Filippucci ad opera di Lorenzo Barruscotto

 

Ora cambiamo completamente ambientazione. Dalle sterminate pianure andiamo ad infilarci in un postaccio che fa provare un vago senso di claustrofobia al solo nominarlo. I Texiani della “vecchia guardia”, me compreso, lo conoscono bene: si tratta di quell'inferno in Terra chiamato Vicksburg.

Ed ecco che la valanga dei ricordi ci travolge proprio come se fosse una nostalgica e piacevole slavina. La mente subito corre a parecchi anni fa: come non rievocare la corposa e splendida storia che inizia in “La trappola” e si conclude con “L'ombra del patibolo”! Su testi di Gian Luigi Bonelli, Erio Nicolò mette in scena un intricatissimo caso basato su uno sporco imbroglio che porta Tex a venire accusato di omicidio e finire rinchiuso proprio in quello stesso carcere.

Non solo il collo del Ranger ma la stessa pace dell'intera zona attorno ai confini delle terre Navajo arriva a correre un serio pericolo e solamente dopo un crescendo di tensione la verità potrà venire ristabilita. L'eroe dalla camicia gialla trattato alla stregua di uno dei delinquenti che di solito è lui a trascinare in galera, le autorità, unte dai soldi di funzionari corrotti, sorde all'evidenza dei fatti, il rischio di una guerra e le giacche blu alle porte della riserva, il peggio che per assurdo si può evitare solamente impugnando le armi e facendo appello ai rari esempi di galantuomini che si rifiutano di credere nella colpevolezza di colui che sanno da sempre al servizio della giustizia o che pur con forti dubbi devono sottostare ad ordini superiori, lavorando anch'essi “In nome della legge”… tutto questo non può non suscitare ancora forti emozioni in un lettore.

E le suscita anche in Tex e Carson, che si trovano in quel luogo per prelevare un detenuto.

Perciò stavolta la situazione appare sotto controllo. Parola chiave: “appare”.

Il titolo ci suggerisce che le cose non sono destinate ad andare lisce. In “Rivolta a Vicksburg” i due Rangers si troveranno nel mirino di un'autentica imboscata che come una macchia d'olio su un tessuto si espande per diventare una sommossa messa in atto dai carcerati, le cui ripercussioni potrebbero essere ben più gravi di qualche bernoccolo. Innanzitutto il detenuto non è un tizio qualsiasi per quanto appaia insignificante ma potremmo dire che è la miccia dell'esplosiva situazione nella quale i Nostri sono invischiati. Se condiamo il tutto con la corruzione dilagante tra coloro che invece dovrebbero garantire la sicurezza della struttura, ecco che da dietro ogni angolo potremmo veder spuntare la minacciosa canna di una Colt rivolta nella direzione sbagliata, cioè verso le nostre budella!

I disegni realizzati dalla coppia Santucci-Piazzalunga sono di pregevole fattura (al di là dei paroloni sono dei gran bei disegni anche quelli di questa storia a mio parere), contribuendo senza alcun dubbio ad instillare il senso di oppressione e sospetto già dalle prime tavole per poi innescare un crescendo di pathos che erompe tra i corridoi del penitenziario sulla pelle dei secondini. Peccato che Aquila della Notte e Capelli d'Argento non siano degli ospiti qualunque e che i loro ferri da tiro costituiscano validi argomenti di conversazione quando è necessario fare la voce grossa. In effetti proprio qui sta il punto: il soggetto della storia è ottimo, ma probabilmente la vicenda, sceneggiata da Giovanni Gualdoni, al fine di svilupparsi completamente avrebbe richiesto maggiore ampiezza, per come era stata impostata e risente del ridotto numero di pagine. La tensione continua ad aumentare trascinando il lettore in una situazione apparentemente senza uscita, tra corse a perdifiato lungo le scale della prigione e pallottole che sfiorano di poco le nostre cotenne. Dove si può fuggire per mettersi al sicuro da una masnada di farabutti che non chiede altro se non fare la festa a due sbirri? E non solamente per i motivi che stanno dietro alle reali ragioni che hanno dato il via ad un'altra “normale giornata di lavoro” per i Nostri.

Lo stile moderno ed energico delle chine risucchia chi legge nella vicenda, come un irresistibile vortice passando da angosciosi primi piani che ci costringono istintivamente a scansarci per non intralciare la fuga di Tex e Carson e non andare a sbattere loro addosso, alle vedute con prospettive insolite ma riuscitissime di alcune aree del Penitenziario, seguendo anche i concitati tentativi da parte delle guardie di arginare il problema e riprendere il controllo della situazione.

Bisogna ammettere che proprio le guardie, si rivelano utili ed intelligenti quanto gli Stormtroopers di “Guerre stellari”: avete presente, i cloni con la loro "divisa" bianca che non riescono a mettere a segno un colpo di fucile laser neanche per sbaglio e che non brillano per acume? Ecco, la quota di materia grigia è approssimativamente la stessa.

Ciò che invece mi ha lasciato con un certo grado di incertezza, e per questo mi vedo costretto ad avvertirvi che seppur non rivelandovi il finale, devo palesare un particolare della vicenda, consiste nel fatto che l'armeria del carcere con armi e munizioni, perciò tutta la sua Santa Barbara, si trovi sul tetto, per di più in una costruzione che se paragoniamo un piano della gattabuia ad un ampio appartamento, è poco più di uno sgabuzzino per le scope.

O le suddette guardie, vista comunque la loro palese inefficienza nel fare il proprio lavoro, erano in numero molto ristretto e gli armamenti di riserva potevano rimanere in un luogo così piccolo, o tale espediente è parte di quel prezzo che la storia ha dovuto pagare per rimanere concisa: la fuga doveva finire da qualche parte e consentire lo show-down finale. Qui c'è la seconda parte del famoso “prezzo”: una sorta di duello (non vi dirò di più) che potrebbe funzionare se si trattasse della contrapposizione tra due campioni in uno scontro d'altri tempi o anche tra uomini d'onore, come due fazioni indiane una contro l'altra per esempio, ma che stona leggermente, a mio giudizio, quando si ha a che fare con un branco di carogne che venderebbero la madre per pochi centesimi. Certo, vedersi scardinare la mascella e rimescolare le ossa del corpo non fa chiaramente piacere a nessuno, e lo spettacolo di Tex Willer e Kit Carson che impugnano le loro 45 è sicuramente un'ottima ragione per smettere di ringhiare e diventare quanto meno per un po' degli agnellini, ma sono certo che avete afferrato cosa intendo dire.

Diavolo, quante volte abbiamo visto frotte di scampa-forche saltare addosso in massa ai Rangers anche dopo aver assistito alla prematura dipartita di buona parte dei loro compari sotto il piombo delle loro pistole! Ok, si potrebbe obiettare che gli “inmates”, i condannati a vedere il sole a scacchi della prigione, già sanno di che cosa sono capaci i due "piedipiatti" e quindi tenendo alla pelle fanno una scelta “auto-conservativa” rispetto ad un'altra, vista la mala parata per un energumeno ingombrante quando un armadio a due ante e disposto al dialogo quanto un maniscalco che si è appena dato una martellata su un dito, ma dal quoziente intellettivo non troppo sviluppato ed attualmente ancora dolorante e più confuso del solito, dopo una notevole ripassata. Ampiamente meritata, specie per il suo modo di agire da vigliacco.

Il colpo di scena conclusivo invece merita una lode, perché ci eravamo quasi dimenticati di un chiamiamolo particolare che ci sovviene solamente quando vediamo Tex agire all'apparenza in modo inspiegabile. Nessun pericolo di errore. Per Tex Willer è ordinaria amministrazione.

Ai colori c'è Erika Bendazzoli che rende molto bene le variazioni di luce tra gli umidi interni della galera e l'abbagliante sole del cortile interno. Viene istintivo strizzare gli occhi durante gli stacchi tra una scena e l'altra proprio come se anche le nostre pupille dovessero adattarsi alle variazioni di luminosità.

Ritroviamo poi Omar Tuis al lettering, grazie al quale le frasi da fiero uomo di legge che ribatte al delinquente che si crede il più furbo del circondario si incastonano ottimamente nei balloons delle varie tavole.

Vicksburg, in Arizona, è attualmente un “census-designed place”. Sorge nella Contea di La Paz ed il termine si riferisce ad un centro abitato che il Census Bureau degli Stati Uniti (l'ufficio per i censimenti) considera differente da una “comune” città, un villaggio o un'area che compone una contea stessa e che perciò non ha una sua identificazione legale in ambito amministrativo. Sottigliezze burocratiche per definire una località che potrebbe essere associata alle “frazioni” dei nostri comuni, soggette direttamente alle regole della contea della quale fanno parte territorialmente.

In pratica Vicksburg non è una metropoli. Per farvi un esempio universalmente noto di queste realtà declassate dalla categoria “città propriamente dette”, Fort Knox in Kentucky è una di esse, come altre grandi basi militari, situate fuori da grossi centri abitati.

 

1acol12 min

"Occhi aperti e dito sul grilletto, amigos!"

Disegno di Lorenzo Barruscotto, tributo a FILIPPUCCI.

 

La prossima storia di cui parliamo è la terza dello speciale. Si intitola “Juliet”.

Purtroppo ci sono alcuni aspetti di quest'avventura, e poi anche in quella successiva, che creano perplessità.

Prima di continuare ci tengo a ribadire un concetto: io non vado a cercare con il lanternino errori o discrepanze negli albi né gongolo quando riscontro qualcosa che non quadra. Se avete letto qualcuna delle mie recensioni sapete bene che non sono affatto quel genere di persona. Anzi, mi è stato rinfacciato di essere fin troppo “innamorato” di Tex e quindi di propendere per un giudizio anche troppo positivo. Premettendo che la sola di cui sono innamorato è la mia fidanzata, il mio ruolo di scrittore di recensioni deve essere per definizione imparziale, vale a dire che quando considero un lavoro meritevole lo dico così come se noto una contraddizione lo dico ugualmente. Sono stato in effetti combattuto riguardo al fatto di evidenziare i “qualcosa” in passato come in questa circostanza ma sono arrivato alla conclusione che se viene meno l'oggettività degli articoli e delle analisi, tanto vale iniziare proprio a scriverlo, un articolo.

Non nego che io faccia trasparire dalle mie parole il mio trasporto e coinvolgimento per il Fumetto e per il West, ci mancherebbe. E' una parte di me e non ho nessuna intenzione di affermare l'opposto. Così come è una parte della vita, che sia professionalmente parlando o per puro diletto, di molti di voi. Ho inoltre più volte sostenuto che le mie sono semplici chiacchierate tra amici, e tutto ciò che dico nel bene e nel male rimane strettamente riferito al lavoro finito di carta ed inchiostri e si basa sulle mie personali esperienze che in quanto tali possono divergere da quelle di altri. Non vado mai, e mai lo farò, a rivolgermi alla persona nella sua sfera privata.

Le critiche non sono mai attacchi personali quindi, e non hanno, per lo meno le mie, una valenza così oscura come ormai tale termine ha acquisito nell'accezione popolare. Posso utilizzare talvolta un tocco di ironia quando uno dei succitati punti interrogativi si materializza al di sopra del mio cranio, ma in questa sede sono un lettore che ha il privilegio di poter condividere il proprio punto di vista con altri lettori. Nient'altro. Non mi ergo sicuramente a ciò che non sono, non voglio essere o non mi compete. Dunque, per come la intendo io, la parola critica ha il significato che compare nel dizionario: “Analisi razionale applicabile a qualsiasi oggetto di pensiero, concreto o astratto, volta all'approfondimento della conoscenza ed alla formazione di un'idea autonoma”. Si rivolge pertanto ai caratteri artistici e, se vogliamo usare un termine aulico, “estetici” dell'opera d'arte. Quando si muove una critica, in questo senso, ribadisco sempre che si deve avere delle motivazioni a sostegno delle proprie argomentazioni e perciò non si tratta di un banale “è bello” o “è brutto”, anche perché non mi permetto di fare da giudice a nessuno. Tempo fa sono stato anche tacciato di comportamento “spregevole” da parte di un professionista dopo aver mosso alcune obiezioni, in una recensione, all'infallibilità del suo operato senza però prestarmi agli strascichi di una sterile discussione che fin dalle prime ribattute alle mie osservazioni aveva trasceso i toni della conversazione civile. Io avevo banalmente detto la mia, da formichina quale sono.

E così faccio ora, non come un pestifero piantagrane (per questo ho inserito scherzosamente il disegno che divide l'intervento che state leggendo dall'analisi della storia) ma come un lettore appassionato. Ok, a volte ficcanaso, ma genuinamente sincero. Tutti devono e possono, se vogliono, avere la libertà di esprimersi, finché si rimane nei confini del reciproco rispetto. Alcune volte, per riprendere ciò che ho scritto all'inizio, è anche un piacere avere opinioni diverse che offrono lo spunto per un confronto al quale si può scegliere di rispondere o chiuderla lì.

 

1acol8 min

Gert, la terribile ma simpaticissima protagonista di "Odio Favolandia",

geniale fumetto scritto e disegnato da Skottie Young.

Disegno di Lorenzo Barruscotto, tributo a YOUNG.

 

“Juliet” vede ai disegni Mario Atzori, noto nell'universo fantascientifico di Nathan Never. La sua prova tra i canyons e le praterie si rivela molto valida già dalle prime tavole. Con la complicità del sempre ottimo Oscar Celestini che torna ad occuparsi della colorazione, l'artista riesce in ciò che non è sempre immediato, neanche a disegnatori esperti: accalappiare l'empatia del lettore trasmettendo il clima che si crea pagina dopo pagina, facendoci provare ciò che i personaggi provano, lasciandoci dentro un senso di tensione quasi soffocante quando le cose si mettono male o sollievo se riusciamo a portare a casa la pelle dopo un intenso scambio di vedute a base di piombo, causa di quel fischio nei timpani che caratterizza gli attimi successivi ad ogni scontro, mentre la polvere si sta ancora posando su vestiti e corpi di chi è rimasto a terra e l'eco dell'ultima detonazione viene portato via dal vento tra le pareti di una profonda e ripida gola. Un sole che permetterebbe di cuocere un uovo su una roccia ci spingerà a riparare il viso con la mano ed alla fine di una giornata, il tramonto incendierà il cielo e le pagine stesse mentre i contrasti tra i colori e le chine renderanno quasi tridimensionali Tex e Carson mentre spingono i cavalli al piccolo trotto.

Voi giustamente direte, ma allora perché diavolo hai parlato di critiche? Ci arrivo.

La sceneggiatura è firmata da Mauro Boselli, ma il soggetto, come afferma lo stesso Curatore della testata nell'introduzione dell'albo, è stato ideato da “uno di noi”, Marcello Bondi.

Bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare. Forse alcuni di voi, come me, avranno già udito questo nome, quale autore anche del soggetto di un paio di storie di Diabolik ed i complimenti per il traguardo sono d'obbligo: avere un proprio racconto preso in considerazione come “spina dorsale” per una storia di Tex non è affatto cosa da poco.

C'è chi a volte ha difficoltà a distinguere tra destra e sinistra mentre altri si confondono tra un sì ed un no. Personalmente, quando dico no vuol dire no. Oppure, pur non considerandomi un professionista del settore, anche se non dovrebbe fare alcuna differenza, mantengo la parola quando la do. Non intendo addentrarmi oltre in un discorso che sicuramente suona criptico ma posso assicurarvi che non c'è la benchè minima stilla di invidia, livore o qualunque sinonimo di atteggiamento infantile vi possa venire in mente, nelle mie parole. Diciamo che al contrario di me, ci sono persone che apprezzano le sorprese o che pensano che una decisione abbia una scadenza, come lo yogurt. Per conto mio le cose o si fanno bene o nel dubbio non si fanno. Perchè si può comunque sempre inciampare in un errore pur cercando di agire correttamente.

Tornando alla mera vicenda narrata, sia per questa storia che per quella che segue sono costretto mio malgrado a fare uno strappo alla mia stessa regola che sostanzialmente recita: “Fai i salti mortali ma non svelare nessuno spoiler”. Per spiegare le mie “critiche” devo andare leggermente più in profondità nell'intreccio narrativo quindi qualche anticipazione, nel caso non aveste ancora letto l'albo, è necessaria.

Di per sé la trama nel complesso risulta scorrevole ed interessante sebbene una scena sembri accendere una lampadina nella zucca di ogni lettore attento. Quando Tex e Carson salvano la ragazza al centro della narrazione, Juliet, da una banda di Apaches (di cui parleremo tra poco) zompa nel nostro cervello il ricordo di un'altra avventura, neanche troppo distante nel tempo, con una sequenza piuttosto simile. Vi aiuto a ricordare: Tex Magazine 2018, la storia “Detenuto modello” di Cajelli e Faraci con Vannini alle chine. Un gruppo di indiani, anch'essi Apaches, che tengono in ostaggio un bianco, questo bianco inizia a lamentarsi parlando nel sonno (per motivi diversi tra le due avventure) mettendo inconsapevolmente a rischio il proprio salvataggio, i due Pards che “circondano” i nemici vedendosi costretti a farli fuori tutti prima che questi riescano ad uccidere il prigioniero, nella fattispecie la prigioniera. La falsa riga, pur con validi cambiamenti, secondo me riporta alla mente proprio quell'episodio. Ma dopo 70 anni di avventure non si può pretendere di fare le pulci su una cosa del genere. E lo dico senza ironia, seriamente. Secondo i non-appassionati il genere western è tutto uguale (purtroppo ne ho una in casa di questi eretici) perciò è più che comprensibile che ad autori navigati, quelli che masticano e respirano West per davvero e che ci hanno regalato un innumerevole sequela di spettacolari storie, sfugga qualche somiglianza.

Pretendere il contrario sarebbe come volere a tutti i costi che, per dire, il preside del liceo del periodo durante il quale frequentavamo noi la scuola si ricordasse del nostro nome e del nostro brutto muso incontrandoci per strada dopo anni, con tutte le facce che gli sono passate davanti. Io a volte al mattino sono talmente rincitrullito da salutare con un “buongiorno” l'immagine nello specchio non riconoscendomi…

 

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Disegno di Lorenzo Barruscotto, tributo a GALEP.

 

Una questione invece che mi ha lasciato molto perplesso, non vi dirò dove si trova per non esagerare con le rivelazioni (anche qui c'è un “allarme spoiler”), sta nel fatto che ad un certo punto viene usato un bisturi a mo' di pugnale. Indipendentemente da chi sia il “bisturato” e chi sia l'aggressore, poiché in una tale situazione potrebbero entrare in gioco fattori non quantificabili come la forza della disperazione o l'effetto sorpresa, l'azione risulta poco realizzabile fisicamente, a meno che non sia un arrabbiatissimo Steven Seagal a maneggiare lo strumento.

Vedete, io stesso ne ho tenuti in mano alcuni durante esercitazioni nell'accidentato cammino ancora in corso per diventare un segaossa, li ho utilizzati (non per accoltellare qualcuno): non sono congegnati per fungere da coltelli poiché manca l'impugnatura, l'elsa se vogliamo chiamarla così, che serve a fermare il pugno quando si affonda il colpo.

Se si maneggia una pistola moderna, di quelle automatiche, chi è alle prime armi, passatemi il gioco di parole, può andare incontro ad una lieve ferita, un graffio, che però viene considerato una sorta di marchio del principiante: nello spazio della mano che impugna l'arma, sul dorso, tra il pollice e l'indice il carrello rientrando può causare una piccola lesione. Perché questa divagazione? Solo per spiegarmi meglio: in mani inesperte, come accade nella storia, anche l'utilizzo di un coltello da cucina potrebbe incorrere in impreviste conseguenze, vale a dire il non riuscire a piantarsi completamente nel corpo del nemico con scivolamento della mano chiusa ma impreparata al contraccolpo lungo la lama. D'accordo, avete ragione, tutto è possibile. Se le ragnatele non offuscano del tutto gli ingranaggi che ho sotto il cappello, in “Nikita” (film, non western, di Luc Besson del 1990), la protagonista elimina un tizio con una matita, però riesce a ficcargliela in un occhio.

Con un bisturi, per quanto affilato, le probabilità di successo si riducono anche per via delle ridotte dimensioni dell'oggetto su cui far presa. Uccidere in un colpo solo un uomo grande e grosso, tralasciando lo spessore del tessuto di ciò che indossa, arrivando a trapassargli il cuore, secondo il mio modo di vedere, diventa un espediente narrativo utilissimo per fare sensazione ma poco plausibile. Una Colt afferrata dopo averla sfilata dalla fondina di uno degli eventuali spettatori poteva essere una valida alternativa, cogliendo realmente personaggi, bersaglio e lettori alla sprovvista.

Durante il proseguire delle tavole, nelle quali i dialoghi sono ben articolati grazie al lavoro di lettering di Alessandra Belletti, si evince attorno alla donna al centro della faccenda un'aura di inquietudine. C'è un tassello fuori posto nel mosaico ma non riusciamo a mettere a fuoco di che si tratta. Lo stesso Tex ci mette una pulce nell'orecchio grazie anche all'abilità grafica del disegnatore unita ai “non detti” inseriti nei punti giusti dallo sceneggiatore. E' come un bel gioco di prestigio: il trucco consiste nell'attirare gli sguardi e la concentrazione dello spettatore da una parte per distoglierlo da dove invece sarebbe portato a focalizzarsi. Non ho nessuna intenzione di spiattellare di cosa sto blaterando, ma chi ha seguito da vicino tantissime indagini dei Rangers ha certamente anche stavolta condiviso questo senso di diffidenza nei confronti di chi invece dovrebbe essere “soltanto” una vittima. Appare dunque opinabile la decisione di far rimanere la donna da sola (altro spoiler inevitabile) con colui che lei ci ha raccontato di voler incontrare, non fosse altro per il fatto che indubbiamente ne ha passate di tutti i colori, avendo attraversato l'inferno, visto in faccia la morte e sopportato una terribile umiliazione. Da paladini della giustizia, quali sono, e momentanei protettori della fanciulla, pur non essendo i due amici dei veggenti e non arrivando a sospettare il modo con cui termina questa triste storia, ma nemmeno essendo abituati a lasciar fare al caso con leggerezza, a mio avviso sarebbe stato prudente prevedere la presenza di Tex e Carson nella stanza con la ragazza, ufficialmente anche in vece di supporto morale.

Poichè vengono nominati sia in quest'avventura sia in quella d'apertura ad opera di Civitelli-Dixon-Corda, è bene fare chiarezza sugli White Mountain Apaches.

Anche nel loro dialetto si chiamavano il “Popolo delle Montagne Bianche” perché vivevano nella zona delle White Mountains, in Arizona. Si tratta della “branca” più orientale del gruppo denominato Apaches Occidentali e costituiscono una tribù riconosciuta dal governo federale degli Stati Uniti. Oggi hanno anche un sito e la pagina social di riferimento se siete curiosi di saperne di più su di loro. Secondo le fonti che ho consultato, gli Apaches Coyoteros, che abbiamo più di una volta sentito nominare nelle avventure di Aquila della Notte, fanno parte di questo gruppo etnico, ufficialmente con il nome di Western White Mountain Tribe. Tanto per capirci, gli Apaches di San Carlos, che vivono sulle rive del San Pedro River sono un raggruppamento che include varie famiglie (in senso non letterale) di pellerossa inclusi i Chiricahuas, i Lipan ed i Tontos.

Vengono citate le Carrizo Mountains. Esiste infatti il Carrizo Creek, affluente del Salt River, che scorre nella zona dove avreste potuto trovare i componenti della banda di Carrizo, i quali non si trasferirono nella Riserva di San Carlos con gli altri nella seconda metà del Diciannoveslmo secolo.

Per farla corta sia i White Mountain Apaches che i San Carlos Apaches fanno parte dei cosiddetti Apaches Occidentali: queste tribù prendono il nome dalle zone di provenienza situate tutte nella parte centrale dell'est dell'Arizona ed attualmente la maggior parte vive nei territori di varie Riserve tra cui la San Carlos Indian Reservation. Direttamente legata alla vita moderna dei “nostri” White Mountain c'è la Fort Apache Indian Reservation che rientra a pieno diritto nel governo tribale.

 

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Ritratto di Giuliano Gemma in "Sella d'argento" ad opera di Lorenzo Barruscotto

 

California, 1866. L'ultima storia di cui ci occupiamo fa parlare di sé e costringe i nostri neuroni a fare a botte tra di loro già dalla primissima didascalia introduttiva, distraendoci dall'effettiva vicenda almeno nella sua parte iniziale. Ma andiamo con ordine.

Golden Queen” graficamente parlando è un vero e proprio gioiello. Non per niente l'artista a cui sono state affidate le illustrazioni si chiama Andrea Venturi, il che è sempre una garanzia. Se poi andiamo a vedere chi si è occupato di colori e lettering, rispettivamente i già nominati Celestini e Corda, ci apprestiamo alla lettura tranquilli e beati come se dormissimo tra due guanciali.

Ecco... più o meno.

Prima di gettarci a piè pari nel polverone che questa storia breve ha sollevato, meglio soffermarci un attimo sull'introduzione.

Per come la vedo io, indipendentemente dall'accuratezza storica che si vuole ricercare, come dal fatto di essere agli esordi o meno sulle pagine del Ranger, inserire una data precisa in un'avventura di Tex (intendo il Fumetto), quand'anche si avesse alle spalle una carriera da archeologo specializzato, equivale a cercarsi volontariamente dei problemi dove non serve.

Carta e penna: facciamo qualche calcolo. Sappiamo dal Maxi “Nueces Valley” che Tex è nato nel 1838 e da fonti più che attendibili che le avventure “odierne”, come quella dell'inedito ambientata a New York, si svolgono all'incirca nella prima metà della decade del 1880. Prendiamo pertanto come riferimento tra il 1880 ed il 1885. Il che quadra, dal momento che Aquila della Notte è un uomo “fatto e finito” con un'età approssimativa di 45 anni. Siamo probabilmente tutti d'accordo nell'affibbiare a Carson almeno una decina di anni in più quindi con ragionevole sicurezza affermiamo che il Vecchio Cammello si aggira sui 55 anni. Vogliamo dargliene qualcuno in più? Va bene, la dentiera è vostra, ma non mi avvicinerei troppo alla sessantina se fossi in voi. Facciamo 57 o 58, ok? Ora, se compiamo un balzo indietro nel tempo e togliamo 55 a 1885 (arrotondiamo per comodità visto che non è quel paio d'anni ad interessarci) otteniamo 1830. Se continuiamo sulla teoria dei dieci anni in più di Tex, suppergiù, andiamo al 1828, cosa che anche in questo caso calza con le supposizioni. Volendo verificare da un'altra strada, Kit Willer si inserisce senza far danni in questa piccola digressione matematica poiché è più che accettabile sostenere che la sua età sia tra i 25 ed i 28 (ci spingiamo ai 30 proprio compiuti da poco?) quindi che Tex lo abbia avuto a vent'anni. Circa, ovviamente. Fin qui tutto bene.

Ma seguendo questo ragionamento nel 1866 Carson dovrebbe avere più o meno trentotto anni (basta sottrarre 1828 a 1866). Quando era sulla quarantina dunque. Mmm… mumble mumble... a quarant'anni Kit Carson aveva ancora baffi e pizzetto neri ed agiva come Ranger solitario senza i suoi Pards?

Io ne ho 37 e sotto il mio Stetson non ho più una chioma fluenta. I miei capelli sono talmente radi da soffrire di solitudine però per diventare Capelli d'Argento il giovane “futuro vecchio” Kit non ha questo problema quindi superato il “mezzo del cammin di nostra vita” avrebbe già dovuto iniziare a nevicargli sulla testa. Questo sempre secondo me.

Piccolo Falco nel 1866 sarebbe stato un “ometto” di non più di 8 o 9 anni, quindi sicuramente ancora acerbo per diventare il “quarto moschettiere” e probabilmente era stato da poco mandato a studiare presso i frati, magari dopo aver vissuto la disavventura narrata in “La casacca magica”. Sappiamo per certo che diverse missioni sono state portate a termine sia da Tex che da Carson in solitaria non solamente quando l'ex magnifico fuorilegge era un “agente speciale” fresco di nomina. Basti pensare alla splendida storia realizzata graficamente da Marcello su testi di Boselli che inizia ne “La grande invasione” e termina due numeri dopo con “Gli eroi del Texas”. A quel tempo il Nostro è già Aquila della Notte: dalle sue stesse affermazioni apprendiamo che Lilyth gli ha già dato un figlio e che quando sarà tutto finito “tornerà da loro”.

Oramai lo sanno anche gli scaffali delle librerie dove conserviamo i nostri volumi: è notoriamente accettato l'errore storico che nei primi albi di tanto tempo fa vede Tex, Carson e Kit Willer agire prima e durante lo scoppio della guerra civile. Anzi, proprio in circostanze particolari il figlio di Tex viene nominato a sua volta Ranger ed i tre Pards incontrano truppe dei fronti opposti, giacche blu o giubbe grigie, protetti dal loro distintivo, utilizzato come salvacondotto “super partes”.

Non ci dimentichiamo neanche che Tex ha vissuto mesi parecchio movimentati al fianco di Damned Dick, amico d'infanzia che ricompare solitamente in flashbacks che rievocano proprio le gesta della coppia durante quel conflitto fratricida. Indimenticabile è il trittico che comprende “Quando tuona il cannone”, “Tra due bandiere” e lo struggente “Tramonto rosso”, ad opera dei giganti G.L. Bonelli e Galep ma sovvengono alla memoria altri episodi vissuti al fianco dello scatenato Dick quali “Glorieta Pass” (sempre ideata da Boselli) nell'Almanacco del West 1998, ambientato, la mia fonte è lo stesso sito ufficiale Bonelli, nel 1862, o la più recente “Missouri!” che si conclude in “I due guerriglieri”, ancora una volta in veste di scout dell'esercito nordista al fianco dell'amico senza capelli dalla mira micidiale.

E' plausibilissimo che Tex viva queste avventure della sua giovinezza non al fianco di Carson, magari avendo lasciato il piccolo Kit, in fasce o poco più, al villaggio anche se so bene che tali storie non sono concepite per intrecciarsi con il continuum che ne fa una saga quindi è giusto che rimangano “episodi del passato di Tex” senza farsi troppe domande, ma sto cercando far rientrare in questo continuum l'avventura narrata nel MaxiTex, per quanto sembri di ritrovarsi in mano un pezzo di puzzle che si prova ad incastrare a forza in un posto non suo.

Inoltre suona difficile che, sebbene le circostanze non consentissero di andare troppo per il sottile, gli ufficiali dell'Unione potessero accettare un noto fuorilegge ricercato come scout, benchè particolare. Cosa che non fa a pugni con la teoria con la quale sto suscitando un'epidemia di sbadigli, poiché allo scoppio della guerra è lecito pensare che Tex Willer fosse stato già riabilitato. Infatti lo scontro che vide contrapposti gli Stati del Nord a quelli del Sud scoppiò nel 1861 e finì nel 1865. In tempo per permettere a Tex di avere, forse chissà, già ripulita la sua reputazione.

Potremmo fare un discorso parallelo seguendo le varie tappe costituite dai miglioramenti delle armi da fuoco. Ad esempio proprio il 1866 è stato l'anno che ha dato il via alla elaborazione del Winchester a ripetizione, discendente diretto del famoso fucile “Henry” imbracciato anche da Tex durante la guerra. Amichevolmente definito “Yellow boy” è diventato un'icona dei western di ogni tipo. Il nomignolo gli era stato rifilato per via del castello della culatta in ottone che gli conferiva quella colorazione giallastra. Mentre fu tra il 1873, anno di produzione anche della sei-colpi preferita dai Rangers nelle storie recenti, ed il 1876 che la stessa arma venne distribuita con la culatta in acciaio, quindi non più colorata, più resistente e pesante, a cui si erano apportate delle modifiche tra le quali la compatibilità fra le pallottole: scegliendo il giusto calibro potevano divenire intercambiabili le munizioni del fucile modello 76 e della Colt “Single Action", la nostra fidata Frontier. Andando a ritroso troviamo la Colt Army calibro 44 (1860) o la Colt Navy (1851), che è con ragionevole certezza la pistola con cui lo scapestrato rompicollo Tex Willer degli inizi doveva avere avuto una certa dimestichezza non solo per imparare a sparare.

 

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Un Carson che non esclude di essere stato chiamato "giovanotto" in tempi lontani.

Disegno di Lorenzo Barruscotto, tributo a LETTERI.

 

L'accuratezza da parte dei disegnatori e la loro relativa bravura ed esperienza si notano anche in questi dettagli. Le pistole che compaiono nella storia potrebbero collimare proprio con il modello della Colt Army Single Action, nella variazione con il cilindro già scanalato, come quello dei revolver che la seguirono (non c'erano solo le Colt ma non è questa la sede per aprire ulteriori parentesi). Per uno che le usa come ferri del mestiere ed in più è un Texas Ranger, casca a pennello la variante “Texas Model”, comparsa subito dopo la secessione dello Stato dalla Stella Solitaria, ma adesso sto semplicemente parlottando a vanvera trasportato dalla chiacchierata.

Mentre invece nella cover del numero 4 della collana “Tex Willer” si può visibilmente scorgere una mano in agguato che impugna una Colt 1851 Navy, riprodotta talmente fedelmente da Maurizio Dotti, da sembrare una fotografia di una pistola dell'epoca invece di un disegno, non solamente per il cilindro liscio ma perfino per le minuzie dei punti in cui comparivano le viti che ne tenevano insieme i pezzi. Spettacolo puro.

E quindi? Beh, quindi la storia che completa il ColorTex numero 14, potrebbe più facilmente essere ambientata prima del conflitto tra confederati e unionisti, magari anche poco prima, quando i tempi erano maturi per lo scoppio delle ostilità: in questo caso allora avremmo visto un giovane Ranger dai capelli scuri ed il sorriso che faceva girare la testa alle ragazze, giovane ed aitante, sulla trentina, proprio come risulta il non ancora Vecchio Cammello in questo volume.

Intendiamoci, quello che ho sciorinato finora può benissimo essere una carrettata di stupidaggini, ma è ciò che le mie piccole e contorte circonvoluzioni cerebrali hanno formulato mettendo insieme “Golden Queen” e la datazione. Non ditemi che sono il solo ad avere avuto qualche dubbio sulla “quadratura del cerchio” altrimenti neanche il tizio che mi somiglia come una goccia d'acqua e che incontro ogni mattina, quello dello specchio che ho citato poco fa, mi saluterebbe più.

Scherzi a parte, mi sono permesso di abbandonarmi a queste riflessioni perché l'autore della storia, Luca Barbieri, mi è stato confermato aver mosso i primi passi scrivendo per un famoso sito per il quale anch'io ho iniziato a scrivere e che evito di nominare, noto per l'accuratezza delle affermazioni sulla Storia, la differenza sta nella S maiuscola. Ha poi fatto strada dal momento che è diventato curatore della testata fantasy Bonelli Dragonero. Non è il suo “solo” lavoro poiché come molti di voi probabilmente sanno il nome di questo produttivo autore compare in diversi ambiti sia della “nostra” Casa Editrice che altrove.

Comunque non intendo assolutamente sminuire la qualità dell'avventura che come ho detto racconta un evento della vita di Carson. Il titolo potrebbe giocare brutti scherzi poiché riporta a galla il pensiero del favoloso Maxi a colori numero 5 “Delta Queen”, disegnato da Civitelli su testi di Boselli. Qui non c'è nessun battello ma la vicenda è ambientata dove l'acqua diventa un bene prezioso da non sprecare.

Venturi con il suo stile classico e di classe ci trasporta in meno di un secondo lungo l'arida main street di un paesino dove perfino i cani randagi guardano gli estranei con sospetto e bisogna avere due occhi anche dietro la schiena per non farsela ricamare da una pallottola. L'atmosfera che il bravissimo artista riesce a plasmare come un vero artigiano dei sogni è quella del più tradizionale film western. Un solitario pistolero che si ferma per una bevuta e per far riposare il cavallo, un saloon dall'aria poco allegra ma questo passa il convento, la fioca luce del tramonto ed un cartello con il nome della città, tutto tranne che invitante ed accogliente.

In effetti, e purtroppo spunta il primo di due “avvertimenti spoiler” che sono obbligato a lanciare anche nell'analisi di questa storia come per quella precedente, la parte centrale della vicenda, il nocciolo della situazione, fa correre il nostro pensiero a spolverare una vecchia pellicola prendendola dalla videoteca dei “cimeli”. Vi ricordate di “Sella d'argento”? Il film di Lucio Fulci del 1978 con Giuliano Gemma che impersona Roy Blood, pistolero “semi fuorilegge” che vuole vendicarsi della famiglia di ricconi corrotti che ha distrutto la sua vita, a cominciare dall'omicidio del padre. C'era perfino la canzone della colonna sonora che raccontava lo spirito del personaggio interpretato dal grande attore italiano (“Silver Saddle”, per l'appunto sella d'argento in inglese). Una delle scene iniziali della pellicola consiste nell'eliminazione per mano di Roy di un tagliaborse con alcuni sgherri che minacciavano un'amica del protagonista, proprietaria di un saloon/casa da gioco. Detto in soldoni, si sovrappone con le dovute difformità al nucleo centrale dell'episodio “di carta”.

Ma a parte citazioni o ispirazioni, è un'altra la cosa che non funziona come dovrebbe e come doveva nelle intenzioni dell'autore, a mio parere. La storia è infatti stata concepita per creare scalpore e mandare in subbuglio l'intera comunità texiana. D'altra parte il ColorTex invernale spesso contiene sperimentazioni e come si suol dire non tutte le ciambelle escono col buco. Mi rendo perfettamente conto che con le mie osservazioni offro come minimo il fianco a tutti coloro che invece invocavano a gran voce una maggiore quantità di pepe nelle storie del Ranger, i quali mi etichetteranno sicuramente come bacchettone. Liberissimi, però io resto della mia idea. Di cosa sto parlando? Sono state inserite nelle tavole un paio di scene che non si possono certamente definire né hard né tanto meno osè ma che lasciano intendere attimi “espliciti” coinvolgenti il giovane Carson e la bella “barista”. Ora, non mi scandalizzo affatto per questo, anche perché l'immensa bravura del disegnatore offre la possibilità allo svolgimento dei fatti di fluire con eleganza e pertanto l'esito finale ha stile e raffinatezza. Sappiamo tutti che il vecchio reprobo ha fama di donnaiolo ma ai fini della trama l'aggiunta di un paio di momenti intimi che lo vedono impegnato non ha alcun valore, anzi, l'intero contesto narrativo è palesemente costruito attorno a tali scene, solamente per inserirle e “dimostrare” forse che i Pards se la cavano anche senza i pantaloni addosso.

Come dichiarato dallo stesso sceneggiatore, la scelta è stata voluta, al pari di quella di indicare un periodo preciso nella storia americana. Fin che si vuole sperimentare, anche questo può andar bene. Quello che mi lascia un po' titubante è come il tutto venga proposto in quanto ricerca di una qualche modernità per donare nuova freschezza alle storie. Temo che a questo punto si sia usciti dai binari. La ricerca di modernità non può coincidere con una visione della donna che per forza si sente quasi in dovere di “dare qualcosa in cambio”, non fatemi essere più indelicato, al fine di rendere in debito l'eroe o ripagarlo dell'aiuto e della sua protezione e che poi premia lo stesso eroe facendo il bis. Si potrebbe obiettare sostenendo che il comportamento della ragazza è dettato da un sincero sentimento sbocciato nei confronti di Carson e non c'è alcuna malizia né forzatura, ma anche da questa angolazione la faccenda non sta granchè in piedi. Se da un lato si può comprendere che un guerriero che affronta la morte ogni giorno viva intensamente ogni attimo come se fosse l'ultimo e che sappia godersi i pochi piaceri che le pause dal pericolo gli offrono, dall'altro la figura che vuole essere di donna emancipata e padrona di se stessa non ne esce benissimo, specialmente se consideriamo il fatto che l'amore della sua vita viene ammazzato a sangue freddo una settimana prima. Voglio dire, il cadavere del tuo compagno o comunque del tuo uomo è ancora caldo e tu… beh, avete capito. E' umano e giustificabile che lo straniero tenebroso, il duro dal cuore tenero faccia breccia nel cuore della bella però, almeno per me, il buco stavolta non lo si è fatto nella ciambella ma nell'acqua. Non credo che nel 2019 sia questa la strada corretta per ricercare un nuovo slancio ed una qualche modernità nel Fumetto Tex. Qualcuno non sarà affatto d'accordo con me, soprattutto chi da parecchio chiedeva e continua a chiedere più “azione” di questo tipo anche nella serie parallela che vede le avventure del giovane Tex Willer ancora ufficialmente dalla parte sbagliata della barricata, sebbene talvolta si superi la linea anche se con ciò che, ne sono sicuro, è null'altro che qualche battuta, seppur a volte un po' pesante.

 

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Disegno di Lorenzo Barruscotto, tributo a LETTERI.

 

L'integrità del futuro maggiore dei Rangers sarebbe stata ulteriormente avvalorata lasciando trasparire la visibile tentazione che una “bella figliola” costituisce per un uomo sensibile al fascino femminile ma che proprio perché vulnerabile, spaventata e, non dimentichiamolo, in lutto ed in cerca di vendetta, viene galantemente respinta nel totale rispetto. Con questo non voglio dire che Carson non rispetti la sua occasionale compagna, tutt'altro, ma non si può dire che sia un'avventura che lasci realmente qualcosa in più al lettore, rispetto ad altre, sempre nell'ambito delle storie racchiuse in un numero limitato di pagine. Si arriva ad un innaturale attaccamento per il proprio salvatore, che stride con la figura di ragazza forte temprata dal dolore e dalle difficoltà della vita, caratteristiche che invece si sposano alla perfezione con gli anni che stiamo vivendo, intendo noi che leggiamo, e che sarebbero eventualmente un giusto sinonimo di quella modernità tanto sventolata, fino ad sconfinare nel clichè della richiesta di restare dimenticando i propri doveri di raddrizzatore di torti. Oltre al già summenzionato epiteto di vecchio reprobo, Tex dovrebbe chiamare il suo fraterno amico anche “vecchio ipnotizzatore” per la innegabile abilità a far cadere ai suoi piedi ogni appartenente al gentil sesso.

Sarebbe stato verosimile ed avrebbe suscitato un moto di approvazione ed ammirazione, a parte le solite eccezioni, sempre secondo me, se ci fosse stato solamente il tipico appassionato bacio da scena finale di un film, prima che l'eroe riprenda il suo cammino cavalcando lentamente verso il proprio destino.

Come non mi stancherò di ripetere, tutto questo rispecchia la mia personale visione che non toglie nulla al valore artistico della storia e dell'intero volume. Non è possibile accontentare tutti e nessuno possiede l'infallibilità o tanto meno la verità assoluta. Niente di più facile che qualcuno sia rimasto scontento per la presenza di poche scene dal sapore leggermente piccante o perché troppo poco piccanti. Io ritengo che non esistano periodi migliori o peggiori nei 70 anni da quando Tex è uscito per la prima volta nelle edicole e trovo giusto non smettere mai di cercare un rinnovamento. D'altra parte noi stessi cambiamo in continuazione, siamo gli stessi ma non lo siamo, diventiamo il frutto delle nostre esperienze, che lo vogliamo oppure no. La nostra stessa pelle non è più quella di ieri, anche se non collezioniamo cicatrici. E' legittimo impegnarsi per infondere nuova linfa ad un prodotto, ma non bisogna rinnegare la tradizione, non bisogna dimenticare la strada percorsa, tra alti e bassi, tra picchi e cadute. E non bisogna eccedere, come in tutte le cose. Se dopo 7 decenni va benissimo esplorare piste finora poco battute, non dobbiamo dimenticare che uno dei principali motivi per cui Tex è durato 70 anni è proprio perché è rimasto fedele a se stesso, senza troppi condimenti che poi, come adesso dicono nei programmi di cucina in tv, coprono il vero sapore del piatto. Allo stesso modo è sbagliato fissarsi rimanendo chiusi a qualunque tipo di innovazione, se rimane nell'ambito di ciò che ha reso Tex… Tex.

Esistono altre testate, altri fumetti ed altri registri stilistici. Ce n'è per tutti i gusti.

Insieme alla ricercata mano di Venturi, in “Golden Queen”, come ho accennato, vediamo nuovamente al lavoro Oscar Celestini ai colori e Luca Corda al lettering, la presenza dei quali, come al solito, aumenta il valore intrinseco dell'opera.

Non passa inosservato l'accenno ad un'altra donna ed altri avvenimenti, una parte dei quali all'epoca erano accaduti da poco, ma che noi apprenderemo nella loro interezza quando insieme a Tex ed al figlio saliremo su un treno diretto a nord e scopriremo “Il passato di Carson” prima di fronteggiare “I fuorilegge del Montana” in un “Ultimo scontro a Bannock” (immortale trittico del duo Marcello-Boselli). La “amica” menzionata è Lena Parker, vecchia fiamma di Kit Carson, legatasi poi allo sceriffo Clemmons, ex capo della banda degli Innocenti e forse anche ex carogna almeno in parte redenta… è complicato.

Sarà sufficiente un attimo ed anche alle nostre orecchie giungerà la struggente melodia della canzone “The girl I left behind me”, brano preferito da Carson proprio perché Lena la cantava per lui. E la cantava anche quella notte in cui una vignetta che non ha nulla da invidiare ad una cinematografica inquadratura che si allontana sempre più da una finestra illuminata lasciava intendere molte cose, senza dirne neanche mezza. Poteva essere successo tutto o non essere successo niente. Poesia trasformata in immagini.

La canzone fa parte di un repertorio di brani popolari come altri ben conosciuti quali ad esempio “Garry Owen”, che piaceva soprattutto al “generale” Custer, in particolare però le sue origini sono piuttosto insolite. Partendo dal titolo stesso, che può essere anche “The girl I left behind” senza il “me” è una canzone folk inglese che risale all'epoca della regina Elisabetta (non quella contemporanea). Si dice che fosse cantata dai soldati o dai marinai che partivano per la guerra. Ci sono altre fonti che ne attribuiscono la comparsa ad un certo ammiraglio inglese che servì la corona nella metà del 1700. In ogni caso il primo testo stampato è datato 1791 anche se potrebbe essere stata esportata nelle Americhe già dal secolo precedente. Ne esistono infatti svariate versioni, che si discostano come testo dalla stesura originale a seconda dei periodi storici. Quella che ci viene suonata, la canzone di Carson, è la cosiddetta “Cowboy version” dove si parla infatti di piste da seguire e di indiani. Le parole riportate nell'albo sono proprio quelle esatte e se trovate scritto “gal” non è un errore ma è l'equivalente gergale di “girl”, in inglese ragazza, dal momento che la stessa melodia in molti saloon veniva chiamata “The gal I left behind”. Il testo nella sua completezza con un paio di adattamenti compare ad esempio nel libro “American Ballads and Folk Songs” dove ho trovato riscontro a queste informazioni. C'è una variante con termini irlandesi, una adattata al periodo della guerra di secessione americana ed una perfino cantata durante la prima guerra mondiale.

 

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Disegno di Lorenzo Barruscotto, tributo a VILLA.

 

Ma ora basta dare aria ai denti. La musica ha il potere di arrivare nell'animo di chiunque, di toccare corde che le parole da sole a volte non raggiungono o raggiungono nel modo sbagliato. Un pianoforte, la bella voce di una bella donna, la comune ondata di malinconia quando certi ricordi, naturalmente diversi per ognuno di noi, si affollano davanti ai nostri occhi…

Il West non è solo cazzottoni e sparatorie. La magia che ne deriva è frutto anche di queste gocce di realtà abilmente dosate e mescolate con la fantasia.

Un'ultima menzione la merita certamente la bellissima e dinamica copertina firmata da Gianluca e Raul Cestaro. Come accaduto già in passato per le cover dei Maxi contenenti storie brevi, il tema non riprende, equamente, nessuna delle cinque avventure del volume, ma è un'ulteriore perla che va a completare le 160 pagine di chine, colori ed emozioni offerte da questo formato semestrale.

Domando scusa se in un paio di frangenti sono risultato particolarmente ciarliero o puntiglioso: so bene che “i giornalini” per coloro i quali non rappresentano un lavoro, sono un hobby (nonostante il West sia per molti una vera “religione”, passatemi l'espressione) e se il Fumetto è il mondo delle nuvole parlanti, considerate i miei sproloqui come nuvolette di fumo che una folata di brezza disperde in un attimo: non c'è motivo di farsi il sangue amaro, così come in nessuna delle mie righe si annida un qualche “infervoramento” imbevuto di negatività.

D'altronde se certe cose non le diciamo qui, dove le possiamo dire?

Parafrasando una frase che il grande Bonelli era solito affermare con un'innata classe, tutto quello che non si vede nelle pagine e che fa parte della vita normale avviene negli spazi bianchi tra le vignette. Puro Vangelo. Ed al Trading Post nello spazio bianco non c'è posto per competizioni o cruente polemiche. In quello spazio, come nel cuore di ogni autentico Texiano, c'è solo passione.

Quando avrete dato fondo ai vostri boccali, prima di uscire, chiudetevi bene i cappotti e poi assicuratevi che i vostri cavalli non siano sudati, siano stati strigliati a dovere e che abbiano ricevuto un'abbondante razione di biada. In questo periodo fa dannatamente freddo là fuori.

Hasta luego, hermanos! 

 

 

L'APACHE BIANCO

Soggetto e sceneggiatura: Chuck Dixon

Disegni e colori: Fabio Civitelli

Lettering: Luca Corda

 

LA CASACCA MAGICA

Soggetto e sceneggiatura: Gabriella Contu

Disegni: Lucio Filippucci

Colorazione: Oscar Celestini

Lettering: Omar Tuis

 

JULIET

Soggetto: Marcello Bondi

Sceneggiatura: Mauro Boselli

Disegni: Mario Atzori

Colorazione: Oscar Celestini

Lettering: Alessandra Belletti

 

GOLDEN QUEEN

Soggetto e sceneggiatura: Luca Barbieri

Disegni: Andrea Venturi

Colorazione: Oscar Celestini

Lettering: Luca Corda

 

RIVOLTA A VICKSBURG

Soggetto e sceneggiatura: Giovanni Gualdoni

Disegni: Marco Santucci e Patrick Piazzalunga

Colorazione: Erika Bendazzoli

Lettering: Omar Tuis

 

COPERTINA: Gianluca e Raul Cestaro

 

 

 

I link di "Una voce per Tex"

- "La pista dei Forrester e Tabla Sagrada" letto da Angelo Maggi: https://www.youtube.com/watch?v=HyOowYeG5Zo

- "La Leggenda" letto da Christian Iansante: https://www.youtube.com/watch?v=L1GbQqgMWuQ 

 

 

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