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Intervista a Paolo di Orazio, il pioniere dell’horror estremo in Italia
di Giorgio Borroni
Da ragazzi li nascondevamo sotto il letto dai rastrellamenti, guardavamo con un occhio le loro pagine e con l’altro la porta della camera: questo per percepire ogni minimo movimento ed evitare di essere colti in flagrante mentre li sfogliavamo.
No, non erano i banali giornalini porno, erano opere che sovvertivano il sovvertibile del buon gusto e dei valori di plastica che la società vuole inculcarti a forza. Erano opere che ti facevano ridere con il loro umorismo grottescamente macabro e spesso nonsense, e poi, spesso ti facevano paura.
No, i numeri della rivista «Splatter» non ti lasciavano indifferente, sia che tu fossi disposto a essere preso a pugni nello stomaco, sia che rifiutassi quel tipo di horror a priori.
Scusatemi, pensavate che all’inizio stessi citando «Le Ore» o «Fahrenheit 451», e non una rivista horror degli anni ’90, ma sapete, la vicenda editoriale di «Splatter» ha subito traversie paragonabili alla censura nel porno quanto all’oscurantismo di un libro di genere distopico.
Mente di «Splatter» era il misterioso PDO, così si firmava negli spassosi editoriali, che tutti immaginavamo come un uomo nero, ma poi scoprimmo che la sigla con cui si firmava era estrapolata dal suo nome e cognome: Paolo di Orazio.
Già, lo scoprimmo quando venne fatta un’interrogazione parlamentare che metteva in discussione la decenza di «Splatter»...
Brutta storia, direi, che fa riflettere su tanti temi come la libertà di espressione, sul come è vissuto «Charlie Hebdo» in Francia (piaccia o non piaccia la sua satira è comunque ancora oggi pubblicato) e sul genere horror in Italia.
Come tutte le cose in Italia, che siano il Wrestling, il concerto di Marylin Manson o anche i film di Bud Spencer e Terence Hill, prima creano un polverone, poi il vento cambia e vengono seppellite da altre mode – più o meno innocue, ma fidatevi, sempre meno “di concetto”.
«Splatter», quindi, per chi l’horror lo viveva solo come moda, cadde presto nel dimenticatoio, rimanendo però nei cuori dei veri amanti del genere.
Fortunatamente Paolo di Orazio non cadde nel dimenticatoio, perché imboccò una fruttuosa strada in campo musicale con la band di culto “Latte e i suoi derivati”.
Oggi, però, non siamo qui per parlare di «Splatter», perché dopo un bel po’ di anni dietro la batteria della sua band Paolo è tornato all’horror e... ladies and gentlemen, abbiamo la fortuna di avere qui, su Fumetto d’Autore in carne e frattaglie proprio lui, PDO in persona!
Allora, Paolo, grazie della tua disponibilità! Partirei con una domanda che esula da «Splatter», perché quella credo sia la punta dell’iceberg della tua storia editoriale.
Horror e Umorismo, nel tuo caso sono due cose che vanno di pari passo, come spieghi queste tue due facce?
Grazie intanto, per questa splendida occasione.
Horror e Umorismo sono stati il mix fatale della mia propensione al racconto del terrore – sin dall’infanzia. Grazie ai film di Gianni e Pinotto e alle vecchie storie di Cattivik firmate da Bonvi su «Tiramolla». Adoro tutt’ora quella comicità mista alla decadenza urbana, dove tutto diventa possibile. Nel mio percorso d’autore, non sempre sono stato in grado di farne un impasto solo, nel senso che negli anni ho prodotto molte storie grottesche o di horror crudo senza spazi ironici. Che poi, lo humour nero è la mia massima libidine poiché è in grado di affascinare ogni tipo di lettore. Solo che non mi sono mai messo a tavolino per creare un lavoro ruffiano allo scopo di accattivarmi il pubblico (non che io non lo rispetti, il pubblico, anzi). Per l’appunto, l’espressione massima di questa necessaria combinazione, da lettore, si dispiegò poco più tardi nella lettura di «Horror» della Gino Sansoni, travolgendomi definitivamente tra il 1969 e il 1974, dove già un certo Alfredo Castelli scriveva testi sublimi per straordinari racconti – insieme ad altri autori italiani dalla grande ispirazione, come il grandissimo Pier Carpi – con le infernali strisce di Beatrice, Zio Boris e le vignette surreali di Coco. In quei fumetti, non c’era nulla di grossolano, ma l’ironia era talmente raffinata da passare quasi inosservabile. Appunto, una vena. Come nei racconti horror di Zagor, le spettacolari reinterpretazioni nolittiane di quei tempi, anche lì la mistura del sovrannaturale e della carica comica di Cico rende quella cima superiore a ogni altro racconto che invece si regga esclusivamente sull’abisso. La tragedia e la farsa, mai abbinamento più letale per il fruitore, nel senso di efficacia. È questa la strada che cerco. A volte mi riesce, a volte no. Come per la nuova ripresa di «Splatter», dove non era più protagonista assoluta quell’ironia che ha caratterizzato fortemente alcune storie della vecchia serie. Per l’appunto, ho avuto la fortuna di sceneggiare un racconto horror di Zagor (in uscita a settembre p.v. in un Maxi della SBE), e mettere quindi in pratica, la formula più complessa di un racconto del terrore. Non è stato facile per niente.
Nella scrittura, ho riscoperto e amplificato l’ironia proprio con il mio ultimo romanzo Il morso dello sciacallo e nella serie sparpagliata del mio Spaghetti Western Freak Show (Vincent Books), dove forse sono riuscito ad allenarmi per l’eventuale terzo ritorno di «Splatter, e per le mie imminenti pubblicazioni con Cut Up, sia come disegnatore solista, sia come sceneggiatore per un altro grande autore che torna insieme a me al fumetto dopo anni (ne sapremo di più nei paraggi di Lucca Comics&G 2017).
Dopo «Splatter», nel mondo letterario sei stato quasi un fantasma per impegni musicali. Cosa ti ha fatto decidere di ritornare e soprattutto di insistere caparbiamente con un genere che in Italia è di nicchia?
Gli impegni musicali sono stati una felice, indimenticabile interruzione coatta di quel che avevo ancora da dire nell’horror. Se da una parte interrompere la musica (che è il mio terzo spirito) è stato a sua volta un dolore immenso, la necessità di tornare alla scrittura era ancora più urgente. Diventato famoso come batterista, non ho retto al conflitto di continuare a tenere in gabbia la scrittura e proseguire nella musica, quindi ho deciso di tornare alla scrivania. Dopo anni di assenza, è stata una fatica quadrupla riallacciare rapporti in editoria: le cose erano profondamente cambiate rispetto a come le avevo lasciate. Ma ci ho provato lo stesso. Insistere poi ferocemente in un genere che ancora trova opposizione e resistenza anche da parte di persone intellettualmente evolute forse è il sintomo di una mia follia. Solo un pazzo potrebbe perseverare all’infinito su un lavoro che non rende, in termini di guadagno. Però... c’è un però: ed è rappresentato dall’affetto di molti lettori che mi seguono da 30 anni. Perché abbandonarli? In questa mia perseveranza, credo (ripeto, credo) sia arrivata quella maturità per farmi vivo nel mercato anglofono proprio adesso che ritengo di aver detto tutto e di dover compiere una necessaria metamorfosi per narrare altro.
Tu definisci “Primi delitti” il big bang dello Splatterpunk in Italia, ma all’estero era un genere già consolidato... quali sono state le influenze che ti hanno portato sulla via dell’horror estremo?
In realtà, la definizione viene dall’esterno. Io l’ho fatta mia per descrivermi in poche righe. Sono arrivato all’horror estremo da solo, da lunghi anni di letture a fumetti, italiani, americani e francesi. Per dire, secondo me il Ranxerox di Tamburini e Liberatore è molto splatter punk. Nei primissimi anni Ottanta ho iniziato poi a frequentare il noto Fantafestival di Roma, scoprendo riviste come «Starlog», «Fangoria», «Gorezone» spacciate da una fumetteria specializzata. Prima di lavorare sull’horror ho fatto gavetta in una redazione per mensili porno (1986-’88), e scrivere racconti hardcore è un po’ scavare nell’estremo. Leggere poi Stephen King e Clive Barker è stato decisivo per i miei obiettivi. Nel mio biennio di scrittore porno avevo comunque impastato l’umorismo nero che carpivo dalla lettura di «Totem», «Il Male» e «Cannibale». Traslare il tutto nell’horror quando mi trovai nella trincea di «Splatter» ha forse consegnato a me la semplicità di spingermi in una forma di orrore che desidero spettacolare quando metto giù una storia (come lo erano i magnifici racconti di «Creepy»). Poiché, innanzitutto, devo meravigliare me stesso, se mi auguro di dire qualcosa a qualcuno.
A questo punto introdurrei l’opera che hai di recente pubblicato con la Cut Up, Black & Why?, una sorta di consacrazione della tua carriera in campo editoriale, ma anche una sorta di autobiografia.
Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea di questo libro nasce per volontà del mio amico Stefano Fantelli, detto El Brujo, direttore editoriale di Cut Up Publishing (nonché scrittore horror noir e sceneggiatore co-creatore della fortunata serie Cannibal Family). Come ha scritto nell’introduzione, Stefano desiderava da tempo mettere in ordine l’universo per valorizzare la mia faccia grafica. Sarei voluto diventare un disegnatore di fumetti, è vero, ma poi gli eventi di redazione mi hanno aiutato a scoprire un’abilità già pronta, quella della scrittura, che ha preso da sé le mie decisioni. Quindi, Black & Why? raccoglie praticamente tutto ciò che dal 1987 ho disegnato in bianco e nero. E, giusto per non farlo diventare uno scarno portfolio, dal momento che non si tratta di un graphic novel, ho legato il tutto con piccoli capitoli autobiografici. Certamente, non è un’operazione di intrattenimento puro cn una storia sola. Dentro, ce ne sono una per pagina.
Il lettore, almeno è l’effetto che ha fatto a me, si ritrova sbattuto nella tua mente con richiami fumettistici, illustrazioni dark e racconti che vanno dalla comicità più “corporea” alla sensazione di oppressione tipo “L’erede”... quello ti mette veramente in ansia. È un materiale così eterogeneo che credo dargli coerenza sia stato complicato... ti va di parlarci delle fasi di lavorazione di Black and Why?
Praticamente è un libro che si è fatto un po’ da sé. Come dicevo prima, l’azzardo è stato mettere su pagina anche un po’ di vita non editoriale, giusto a tracciare per fissare i diversi canali delle mie influenze. In questo modo, però, sono riuscito a raccontare anche i miei ultimi anni, dalla rinascita di «Splatter» (2013), durante i quali ho unito le forze con Stefano e l’autore/editore Alessandro Manzetti, in una sorte di triade malefica per realizzare una mole pazzesca di progetti letterari horror sia con la Cut Up che con la Independent Legions Publishing di Ale, nonché con Kipple, per l’Italia e per l’estero (Alessandro è il primo vincitore italiano del Bram Stoker Award). A parte ciò, la fase più tosta è stata quella di disseppellire lavori degli anni Ottanta, e cercare di suddividere il libro in tre gallerie principali, visto che non posso dire di avere un solo stile (non lo dico per vanità, ma per consapevole senso del caos). Ho scansionato tutto il materiale anni Ottanta, e riordinato quello dai Novanta in qua. Mi sono divertito a inserire – per chi non lo avesse ancora letto – foto e qualche memorabilia della mia vita. Se non mi avesse fermato Fantelli, avrei fatto molto di più. Ma è troppo presto per un progetto più ambizioso di quanto non mi abbia già concesso Cut Up. Mi ritengo soddisfatto. Ora manca il libro opposto, cioè tutto quel che ho disegnato a colori.
In questo libro riproponi una sorta di racconto che non è solo intervallato da illustrazioni, ma si serve anche di fumetti per far procedere la trama: “Adolf Hitler vuole stringere amicizia con te!”. Io la trovo una sperimentazione notevole oltre che una storia perfetta nella sua durezza (a dispetto del titolo che prende in giro un celebre meme di Facebook). Ti va di dirci qualcosa di più?
Sono davvero felice che tu abbia apprezzato questo racconto. È un pezzo a cui tengo moltissimo. Praticamente Adolf è il/la graphic novel che vorrei disegnare da grande. Concepito inizialmente per una riedizione di Primi delitti, tale racconto fa(ceva) parte di una triade con cui desideravo aggiornare l’ormai quasi trentennale antologia dei miei esordi, alternando testo e fumetto (come ho fatto già sul romanzo Vloody Mary – ispirato da Kill Bill, ovvero lo scambio repentino di narrazione nella storia stessa – nonché su «Shinigami» per chiudere il terzo episodio disegnato a metà per motivi di tempistiche di stampa). L’editore del Primi delitti 3.0 (la seconda edizione è del ’97, Castelvecchi), però, alla vista di questo titolo giocoso e volutamente provocatorio, ha avuto un forte ripensamento sull’operazione rinunciandovi del tutto. Per ogni racconto di Primi delitti avevo realizzato un frontespizio disegnato, e Adolf rappresentava il cuore del libro dispiegando ali a fumetti, oltre quelle delle infauste aquile naziste. Ho approfittato del mio nuovo «Splatter» per giocarmi Adolf nel 2014. Ma nei miei progetti, c’è quello di farne un libro a se stante, per un romanzo di formazione.
Veniamo a “Ficantropus”, che è un personaggio che mi è rimasto dentro... nel senso metaforico del termine ovviamente! Puoi dirci di più della sua storia editoriale e soprattutto... hai foto della Culona Scudellazzi citata nel fumetto?
Ahahah! No, non ce l’ho! E neanche esiste: dovrei disegnarla e credo somiglierebbe a Druuna di Serpieri. Ficantropus nasce prima come racconto per una raccolta uscita nel 2009 e che tornerà nel 2018, Che hanno da strillare i maiali?. È il mio omaggio sessuale a Licantropus, evidentemente, il mio personaggio a fumetti Marvel horror preferito disegnato da Mike Ploog, e narra di un uomo comune che soffre di una terribile forma di sex addiction. Problema che lo trascinerà in un mare di guai. La versione a fumetti di Ficantropus voleva essere l’episodio conclusivo di una serie che stavamo portando avanti con Semerano, ovvero I racconti di padre Mauro, personaggio che proviene anch’egli dalla raccolta Che hanno da strillare, e che abbiamo sparso su antologie Beccogiallo, NPE, Sherwood e «Shinigami». Dati gli argomenti (le clamorose gesta pedofile di un prete di provincia), la serie sarà davvero dura vederla riunita assieme in libro, ma spero di riuscirci, un giorno, soprattutto per il magnifico apporto grafico di Semerano. Il protagonista malato di superlibido Ficantropus, al secolo Marcello Ratti, ci racconta le origini della sua vaginofilia, una brevissima spirale paranoica che lo porta a confessarsi proprio col malvagio padre Mauro, il quale gli riserva una forma di pentimento piuttosto esplosiva. Se non ricordo male, Ficantropus risale al 2011, ed è la mia ultima creazione a fumetti per quanto riguarda testo e disegni.
“Il rompicapo” è una storia che risale al 1985, il tuo stile mi sembra diverso da quello degli ultimi anni, correggimi se sbaglio, ma credo che ora il tuo tratto ricerchi più la sintesi, in quella storia vignetta per vignetta c’è una sorta di “horror vacui”. Ci ho preso?
Il rompicapo è il mio primo fumetto in assoluto su tavola (prima ho disegnato storie su agende, quando ancora le moleskine non andavano di moda). Cercavo uno stile, sicuramente. Già è tanto che ho trovato il coraggio di mostrarlo oggi al pubblico, ma stiamo parlando di roba incredibilmente acerba. Però è un lavoro che ha segnato il mio esordio 30 anni fa su una rivista porno per adulti, «Fichissimo» (Epp), assieme ad altri che realizzai dopo aver frequentato nel 1984 il Phantasmagorie, corso di fumetto tenuto da Francesco Coniglio. Tornando oggi al disegno, spero di aver trovato una vera sintesi, ma credo sia presto per dirlo. Il mio sommo riferimento è Miguel Angel Martin, in termini di sintesi, e nella serie che sto preparando (e che vedrà la luce con Cut Up per la prossima Lucca), punterò alla massima chiarezza del segno.
Adesso mi sa che ti becchi una domanda di quelle da nerd: Hai scritto diversi romanzi, se ti dicessero che è in progetto la versione a fumetti di uno a tua scelta quale sceglieresti? A quale disegnatore lo affideresti? Ovviamente tu non conti, so che sei un signore e non vuoi fare disparità... e non te la cavare citando diversi autori: sarebbe una graphic novel e non una miniserie (sono sadico? Ho avuto buoni maestri!)
Sei super-sadicissimo, ma ciò mi impone lietamente di stringere il campo senza batter ciglio a Debbi la strana disegnata da Jim Steranko. La sua op art sarebbe davvero perfetta per il mondo psichedelico e sensuale di Debbi.
La mia mente mi proietta già in un trionfo editoriale pazzesco, e così la Dark Horse mi chiede di affidare Madre Mostro a Fabrizio Faina, Vloody Mary a Nik Guerra e Il Morso dello Sciacallo a Mike Mignola, Il dipinto ucciso a Nicola Mari.
Come in ogni intervista che si rispetti entriamo nel gossip... un momento particolarmente strano della tua vita editoriale?
Il momento più strano è quando mi sono ritrovato a impaginare libri e fumetti tra il 2002 e il 2005. Non capisco come possa essere avvenuto, ma ci rido sopra. Però, nel frattempo ho scritto storie pubblicate su «Heavy Metal», per i disegni di Saverio Tenuta e Roberto Ricci e una graphic novel per la Francia Il bambino dei moschini disegnato da Andrea Domestici.
Da indiscrezioni facebookiane ho saputo che stai lavorando al seguito di Debbi La strana uno dei tuoi ultimi romanzi, ti va di parlarci di questo progetto?
Al momento in cui sto rilasciando questa intervista, posso dire di aver concluso la prima stesura del secondo capitolo, nonché penultimo. Ci avevo già lavorato lo scorso anno, in attesa di attaccare Il Morso dello Sciacallo, e ora sono riuscito a chiuderlo. Rispetto a Debbi (cap.1), c’è qualche indizio in più e uno scavo nel profondo della protagonista e del suo antivirgiliano Vanacura. Sono andato a briglia sciolta nella biografia realista, e l’ho dovuta spezzare per ragioni di spazio, ma credo di aver tracciato un solco ben profondo. Ho avuto piacere di arrivare al culmine delle verità e fermarmi un attimo prima gettando la cima per il capitolo conclusivo, il terzo, lasciando ancora una volta in sospeso il destino degli attori in gioco. In questo libro di passaggio, ci addentriamo sì nella materia, ma ho dilatato la violenza in pochi attimi, consegnando alla storia un andamento meno sincopato rispetto al primo capitolo per indugiare nella riflessione umana dei protagonisti. Rispetto allo Sciacallo, l’ironia qui torna ai minimi livelli, per la degna chiusura che giustificherà il peso plumbeo della trilogia, con cui chiuderò – nei miei attuali intenti – la mia missione nell’horror, perlomeno in lingua italiana.
Ultima domanda da svariati milioni di euro: in Italia si può ancora fare horror senza incappare in mentalità editoriali o politiche ristrette? E io intendo quello duro, non il Paranormal Romance...
L’Italia è la nazione delle mode, dell’emulazione, non delle idee originali o di rottura, non di indipendenza. Se un giorno accadrà che l’horror torni ad essere un trend, allora non ci saranno più limitazioni, commerciali intendo. Perché i lettori ci sono. Fermo restando che comunque pochissimi si attengono alla distinzione hitchcockiana tra horror e nero, sarà sempre più difficile fare horror, anche in una utopica onda di rinascimento editoriale. Quel che vedo in giro non promette bene, ma è solo il mio punto di vista. Sì, è vero: nella copertina dello Sciacallo, in accordo con l’editore che è pazzo quanto me, abbiamo scritto thriller sovrannaturale, ma era solo una presa in giro della confusione totale che vige attualmente sulla superficiale considerazione – e proposta – dei generi. Il mio segno di disprezzo nei confronti di una collettiva e presuntuosa assenza di dubbi. Quando vedo la fantascienza o il fantastico spacciati per horror... be’... buona notte ai suonatori!
Sperando di non avervi annoiati, come disse un celebre romanziere, mi fermo qui e ti ringrazio, vi ringrazio specificando che «non si è fatto apposta».
Non mi resta che ringraziare ancora Paolo per la sua disponibilità e per averci regalato tante perle al sangue nel corso della sua carriera: oggi abbiamo fatto una specie di “amarcord”, ma state certi che la vena creativa di PDO è un fiume rosso in piena, e gli argini stanno scricchiolando!
Titolo: Black and Why?
Editore: Cut Up Publishing
Genere: Horror (racconti, illustrazioni e fumetti)
Prezzo 19 euro
www.cut-up.it