Fumetto d'Autore ISSN: 2037-6650
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Robots Magnetici: Jeeg e Gackeen

di Tiziano Caliendo

Il magnetismo e le sue bizzarre proprietà hanno sempre esercitato sul pubblico un fascino “irresistibile” (gioco di parole doveroso). L’arcinemico degli X-Men, Magneto, è entrato di prepotenza nell’immaginario collettivo fin dal suo memorabile esordio nel 1963, lanciando definitivamente nella cultura fantastica il concetto geniale che il magnetismo possa essere un superpotere o, quantomeno, un’arma pericolosa da non prendere assolutamente sotto gamba.

Il maestro Go Nagai, da sempre un pioniere ed uno sperimentatore, con la sua sensibilità ha colto prima di chiunque altro in Giappone questa chiave narrativa della polarità, e l’ha fatta “sua” attraverso un’ennesima opera robotica. Una serie che nel paese del Sol Levante ha inizialmente riscosso un successo limitato, mentre in Italia ha presto assurto il ruolo di emblema incontestabile del genere assieme a Goldrake e Daitarn III: naturalmente parliamo di Kotetsu Jeeg (1975), ovvero Jeeg Robot D’Acciaio.

magnetici robot 01 Jeeg

Kotetsu Jeeg, al di là del suo robot, non è affatto una serie innovativa o rivoluzionaria, bensì aderisce a dei parametri ben consolidati che trovano i loro punti d’origine nelle epopee speculari dei due Mazinga. La trama è chiara e lineare, senza troppi sbalzi o picchi di inventiva, e si lascia godere con spensieratezza. Il vero elemento di grande forza ed innegabile genialità è proprio il protagonista/robot. Hiroshi Shiba è un incrocio tra Billy Idol, Elvis Presley e Ayrton Senna; un ex-pilota di Formula Uno nipponica che scopre di possedere strani poteri. Arrabbiato, ma non per questo incapace di usare il cuore, perennemente immerso nei suoi pensieri interiori di profonda sofferenza, ma non per questo incapace di compenetrarsi nelle vite altrui, Hiroshi corre in sella al suo destriero metallico. Un personaggio così inarrestabile nella sua palese e sfacciatissima libertà non può che conquistare i cuori del popolo adolescenziale. Incarna con disarmante perfezione la voglia dei teenagers di sfuggire al mondo degli adulti – con la sua follia incomprensibile e la sua realtà soffocante – e ritagliarsi quindi una propria dimensione esclusiva, dove poter “sopportare” meglio le contraddizioni ed i paradossi della vita.

Hiroshi si assume comunque le sue gravose responsabilità di eroe e salva il mondo tra varie peripezie. Fa lo slalom con la sua futuristica moto tra ostacoli ed incomprensioni, ma in sostanza resta fedele a sé stesso e al suo spirito outsider: rimane perciò un “perdente che vince”. La parola “perdente” nel suo significato più nobile, il significato pop e persino invidiabile che ha assorbito nel corso di decadi cinematografiche, essendo percolata per un James Dean di La Valle dell’Eden e per un Marlon Brando de Il Selvaggio. Eppure, il ragazzo è molto più di un motociclista agghindato da ribelle che combatte spaventosi mostri, e spalanca le porte ad un dibattito ancora più drammatico ed irrisolto. Doppiaggio italiano e confusioni di traduzione a parte, Hiroshi non è (più) umano. E’ un cyborg, a mio avviso precursore del Terminator T-1000 di cameroniana memoria. Egli è in grado di trasformarsi in due forme umanoidi potenziate ben distinte, dall’aspetto decisamente supereroistico (specie la seconda), e infine nella testa del robot gigantesco Steel Jeeg. Gli autori sorvolano sui principi che rendono possibile una tale metamorfosi, quasi a non voler spaventare gli spettatori più piccoli con idee troppo astruse. E’ mio parere che, probabilmente, il corpo di Hiroshi sia costituito da un endoscheletro ricoperto di nanomacchine interconnesse, vale a dire “metallo liquido poli-mimetico”, ed ecco come la sua struttura esteriore possa mutare massa, forma e funzione. Per avere un parallelo calzante, basta esaminare la letale T-X/Terminatrix del film Terminator 3: Le Macchine Ribelli (2003).

magnetici robot 02 Jeeg

Una simile prospettiva fantascientifica apre una lunga catena di dissertazioni esistenzialistiche, dove Hiroshi si interroga e si strugge sulla propria umanità o sulla (supposta) mancanza di essa, delineando un territorio di tormenti interni che Nagai ed il suo staff non temono di esplorare, pur nei limiti del loro target adolescenziale/infantile. Già. Cosa ci rende umani? Perché siamo umani? Hiroshi scoprirà dopo una lunga e sofferta via crucis, scandita dagli affronti subiti e dalle battaglie vinte, che dopotutto lui è ancora “umano” in quanto possiede la capacità di empatizzare con altri esseri viventi e di provare amore per le persone a lui vicine. Una risposta magari demagogica e prevedibile, ma la serie possiede l’onestà necessaria per proporla in una chiave dolce e significativa.

Tornando al Super Robot protagonista, Steel Jeeg non è un avatar meccanico “pilotato” come i suoi predecessori, ma è essenzialmente una versione magnificata di Hiroshi. Nagai ribalta nuovamente le regole del gioco, come del resto già aveva fatto con Getter Robot (il primo robot componibile).

Attraverso una drammatica e altisonante trasformazione, Hiroshi si metamorfizza nella testa del titano e dunque “riceve” il resto del corpo di Jeeg, disassemblato in vari componenti, dalla celebre navicella Big Shooter. A bordo dell’astronave, la dolce ed assennata Miwa Uzuki, ideale controparte sentimentale dell’eroe. La trasformazione è una sequenza divenuta leggendaria nel mondo del mecha robotico. Qui il magnetismo è inteso come “integrazione” e “coesione” di parti che si appartengono di diritto, affini tra di loro, allo scopo di creare una sola unità funzionale, che è appunto lo Steel Jeeg. Il robot presenta un design meraviglioso nella sua immediatezza ed essenzialità, al punto che chiunque – armato di matita e pazienza – lo potrebbe riprodurre su carta. L’unico particolare estetico veramente sui generis, e che per questo spicca maggiormente, è la forma delle strutture laterali della testa, reminiscenti delle ali di un aereo supersonico Concorde. Il definitivo coup de grâce all’immaginario collettivo da parte di un gigante meccanico che ha fatto storia e che, ancora oggi, infiamma gli animi.

magnetici robot 03 Jeeg

Un altro angolo originale e interessante del Jeeg è la capacità di sostituire i suoi arti antropomorfi (braccia, gambe) con vere e proprie armi: missili perforanti; bazooka spaziale; componenti subacquei; astrocomponenti e persino un cavallo cyborg (H305 Antares) con cui fondersi e dare origine ad un robo-centauro di inaudita potenza.

Glisserò sul plot e sui personaggi, in quanto sono conosciuti da tutti. Il professor Shiba rappresenta un altro “eco a ritroso” del futuro sci-fi che verrà, in quanto è una personalità/coscienza umana digitalizzata, backuppata e riprodotta all’interno di un computer. Un tratto che ritroveremo solo nel 1986, attraverso l’eponimo personaggio virtuale del famoso telefilm cyberpunk Max Headroom.

Sento solo di dover aggiungere che i nemici, gli esponenti dell’Impero Yamatai, sono terribilmente affascinanti nella loro ineluttabile mostruosità e malsana natura terrea. Intrappolati in una rigida architettura di insane gerarchie e asfissianti regole militari, gli Haniwa e la loro iconografia complessiva posseggono quell’aura da film horror a metà tra la Hammer Productions degli anni settanta (I famosi films di Dracula, posticci e kitsch, di Christopher Lee) e il cinema degli esordi di John Carpenter: una pietanza che decisamente mancava nel panorama robotico, molto più orientato verso civiltà aliene color pastello dalle evocazioni paradossalmente più rassicuranti. Indimenticabile è la grotta principale dove la regina Himica vive la sua prosopopea di tiranna e le sue non poche tribolazioni nel tentare di conquistare il “mondo della superficie”, accompagnata dagli impalpabili canti femminili anni sessanta della soundtrack che accentuano le dosi di mistero ed inquietudine che attanagliano il giovane spettatore. I ministri della regina - l’imperioso Ikima, il roccioso Amaso ed il visivamente incongruo Mimashi - riescono a ritagliarsi i loro notevoli spazi ed incarnano in pieno il valore dell’estrema fedeltà, sia essa positiva o negativa, motore di intraprendenza e fervore fino alla tragica conseguenza della morte. A modo loro, tre icone importanti nell’universo di Jeeg.

magnetici robot 04 Jeeg

La sconcertante pecca dell’intreccio è quella di non approfondire ulteriormente il discorso della Campana di Bronzo, perno della vicenda, né di regalarci due o tre episodi finali in più per inspessire e sviluppare compiutamente la conclusione della storia. In questo, Kotetsu Jeeg inciampa nell’errore imperdonabile di alcune serie di mecha robotico, che diventano sbrigative e frettolose nel finale. Volendo pertanto chiudere la partita prima del fischio dell’arbitro ed accentuare, così, un senso di insopprimibile insoddisfazione nello spettatore.

Kotetsu Jeeg resta però un’esperienza imprescindibile nel genere, grazie al suo “attore” principale… forse, l’indiscussa rockstar dei piloti di Super Robots, abile nel conquistare i gusti del pubblico e regalare brividi di emozione sincera a chiunque sogni una ribellione eroica non contro il mondo ma per il mondo.

magnetici robot 05 Jeeg

Nel 1976, Nagai lancia l’intuizione, raccolta dagli autori e sceneggiatori della Toei Doga, per un altro Super Robot magnetico, questa volta però più pittoresco e complicato. Il suo nome è Ga-Keen (a volte scritto Ga-Kin), ma in Italia diventerà Gackeen (pronuncia: jeikin).

Anche qui il robot non è pilotato, ma è una gigantesca gestalt bio-meccanica – nel caso specifico, un’entità risultante dalla fusione di essenze diverse tra loro. Takeru e Mai, gli eroi, divengono rispettivamente l’Uomo Magnete Plus e l’Uomo Magnete Minus, in virtù di una loro natura elettrica anomala non ben specificata. Takeru ha acquisito o manifestato per la prima volta l’oscura proprietà quando un fulmine ha colpito lui e la madre, uccidendo la donna sul colpo. Mai invece l’ha dovuta “risvegliare” attraverso una lunga e straziante sperimentazione, in cui il suo corpo è stato sottoposto a scariche elettriche (o elettromagnetiche) di esorbitante amperaggio. In entrambi i casi, il prodotto è al contempo medesimo e contrario: i due giovani sono in grado di convertirsi in due esseri dalla carica magnetica opposta, sfoggiando tute supereroistiche e capacità atletiche enormemente potenziate. All’occorrenza, l’Uomo Magnete Plus (Takeru) e l’Uomo Magnete Minus (Mai) possono – attraverso un processo chiamato Sweet Cross (in Italia: Croce D’Incanto) – fondersi nell’Uomo Magnete in Un Solo Essere, ovverosia un elemento senziente composto da un paio di esagoni congiunti tra loro, che ricorda una maschera domino. Tale Magneman genera l’energia sufficiente per permettere ai componenti del Gackeen di assemblarsi. Dopo lo spettacolare procedimento di aggancio, le coscienze mescolate dei ragazzi presumibilmente “scivolano” nel corpo del robot ed a quel punto non esistono più Takeru e Mai… ma solo Gackeen. Nel doppiaggio originale, la fusione mentale è sottolineata dall’effetto di sovrapposizione delle voci dei protagonisti quando il robot “parla”.

magnetici robot 06 Gackeen

Mi sembra di intuire che alcuni danni che il Gackeen  subisce si “riflettano” consequenzialmente sui corpi umani dei ragazzi, tant’è vero che in un episodio appaiono entrambi con lo stesso braccio ferito, esattamente come il robot durante la battaglia precedente. Quello dello Sweet Cross è un concetto affascinante, ma per una ragione che definirei quantomeno crudele: non viene minimamente spiegato. Non sappiamo cosa accade. Ha una valenza biologica? Spiritualistica? Magica? Di sicuro i ragazzi sono mutanti. Nell’episodio finale, vediamo l’immagine di Takeru e Mai che soffrono “all’interno” dell’Uomo Magnete in Un Solo Essere ma, ancora, la scena si presta a milioni di interpretazioni, tutte potenzialmente valide.

E’ mia personale teoria che l’Uomo Magnete in Un Solo Essere sia una sorta di step evolutivo della razza umana, ed i poteri “polari” di Takeru e Mai fanno sì che essi possano naturalmente trasfigurarsi in questa creatura ferrosa dalle facoltà tecnopatiche, cioè capace di interfacciarsi con sistemi cibernetici e diventare un tutt’uno con essi. In un certo senso, l’Uomo Magnete in Un Solo Essere è un rebis, vale a dire il leggendario frutto di un matrimonio alchemico, sebbene in questo contesto si tratti di un amalgama di stampo (fanta)scientifico.

In un episodio molto speciale (il numero 31), Mai è ferita, e Takeru è costretto a fondersi con un ingombrante modulo meccanico che funge da surrogato per l’Uomo Magnete Minus. Il risultato è un Gackeen dalla personalità sbilanciata, troppo aggressivo ed impetuoso, in quanto manca il fattore femminile dell’equazione. A mio parere, uno dei pochi sprazzi dell’opera in cui si sviscera un’idea che avrebbe potuto fare faville se sviluppata in maniera trasversale, puntata per puntata.

Quando non combattono come Gackeen, i campioni del più e del meno pilotano due Super Robots dalle fattezze tozze ed inconfondibili – Plyzer e Mighty – che si convertono negli apparati boosters del gigante magnetico. Curioso che il design di Plyzer verrà poi rimaneggiato e riproposto in Maximilian, l’automa psicopatico del film della Disney The Black Hole (1979). Somiglianza deliberata o coincidenza, non lo sapremo mai.

magnetici robot 07 Gackeen

Ma chi sono i protagonisti al di là del loro status di Uomini Magnete? Takeru Hojo è un pazzo scatenato, anarchico ed insolente, simpaticamente “antipatico”. Una sorta di Sanshiro Kurenai (Judo Boy) al vetriolo, che se ne frega categoricamente di tutti e vuole soltanto crescere come campione di arti marziali per surclassare la figura di un padre ingombrante (ma saggio). All’inizio, il compito di Uomo Magnete Plus e metà fautrice del Gackeen è per lui fuorviante e addirittura insopportabile, ma con il tempo comprenderà che solo maturando come difensore della Terra potrà vincere come marzialista. Gradualmente, il Gackeen diventa la sua personale catarsi per poter progredire nel combattimento agonistico e raggiungere la tanto agognata ascesi. Mai Kazuki è invece un personaggio praticamente non-esistente ai fini dello svolgimento della trama. E’ molto dolce e volitiva, caparbia ed intelligente, ma è un punto morto nella storia; gli sceneggiatori perdono molte opportunità per elaborare il suo rapporto con Takeru e renderla eventualmente importante quanto lui. L’amore tra i due sembra non sbocciare mai, laddove sembrava che la serie volesse davvero descrivere un rapporto uomo-donna intenso e particolare, dato che la coppia si trasforma in un unico Super Robot, un’esperienza che non può lasciare certo indifferenti due anime.

Pertanto, Magnerobot Ga-Keen è un’occasione mancata. In compenso, vanta un character design splendido, plastico e dettagliato, mentre il mecha design è tra i migliori degli anni settanta. Il Gackeen sembra quasi un upgrade iper-futuristico del Grande Mazinga, e rappresenta uno dei punti più alti nella raffigurazione robotica. I combattimenti sono avvincenti, ben costruiti e sceneggiati, dove non mancano momenti di brutale impatto cinetico e suspence. Al character arc personale di Takeru si aggiunge anche il suo rapporto con la squadra della Divina Libertà. Infatti, un motivo per cui la narrazione dell’opera si regge in piedi e avanza è proprio la crescita dell’amicizia tra i membri del team, i loro diverbi, l’iniziale diffidenza e ostilità che Takeru nutre per loro, per poi giungere al genuino affetto e alla condivisione che sussistono fino alla fine, nonostante le difficili prove.

Riguardo i nemici, una breve nota. Gli Azzariti sono in pratica la versione subacquea del popolo Yamatai. La figura principale, il Comandante Brain, sembra quasi un’immagine speculare di Darius il Grande, nemico del Gaiking. Entrambe le serie sono assistite in qualche modo da Nagai e sono contemporanee, classe ‘76.

magnetici robot 08 Gackeen

Non possiamo non menzionare le sigle di Jeeg e Gackeen, sarebbe un peccato atroce. Le due canzoni sembrano completare la bellezza delle storie, sono quasi parte integrante di esse. Roberto Fogu, in arte Fogus, ci regala un brano proto-Litfiba jazzato, su cui i sintetizzatori sovrastano il tessuto musicale, stampandosi indelebilmente nella mente dell’ascoltatore. La versione originale giapponese è stata in fretta e furia rimaneggiata da Detto Mariano e riscritta (nelle lyrics) da Moroni, Lepore e Casco.

Il tema di Gackeen è invece un pirotecnico brano semi-funk dalle venature disco, cantato dalla voce femminile solista, impenetrabile e fredda ma per questo memorabile, dei Mini Robots. Il testo è stupefacente nel sondare con acume e poesia la dicotomia uomo-donna.

L’articolo finisce, ma non l’infinita ed eterna carica magnetica di questi due Super Robots, che verranno sicuramente ricordati nei secoli a venire… aghi ideali delle bussole di tutti quelli che amano i titani metallici in difesa del pianeta. Il Nord è lì!

 

Tiziano Caliendo: Classe 1977. Scrittore di fantascienza, blogger cinematografico, musicista e addetto ai lavori/manager nel campo musicale, impegnato nella fase di pre-produzione di un ciclo di novelle imperniate su un super-robot di sua invenzione: Quantaldian.

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