- Categoria: Cuore e Acciaio
- Scritto da Tiziano Caliendo
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Daikengo, Il Guardiano dello Spazio
di Tiziano Caliendo
Il 18 dicembre, la Yamato lancerà sul mercato un lussuoso cofanetto DVD, in edizione limitata, contenente una delle serie robotiche più particolari degli anni settanta nipponici: Uchu Majin Daikengo (1978). Con protagonista un degno esemplare della seconda generazione di titani pilotabili, più sofisticati di quelli pioneristici di Nagai (ad eccezione di Jeeg, che costituisce davvero un caso a sé stante), Daikengo presenta alcune peculiarità che lo rendono un prodotto discreto e, ancora oggi, non privo di un certo magnetismo.
La serie è composta di soli 26 episodi, un’anomalia se pensiamo che la maggior parte dei titoli in genere raggiunge i 39 episodi, per poi considerare l’altra estremità dello spettro con Toshi Gordian, che ne conta 73, o Mazinga Z. Nonostante la storia si dipani nell’arco di un range limitato di puntate, Daikengo riesce comunque ad “interrompersi” al momento giusto, invece di cedere sotto i colpi della stanchezza e dell’inevitabile ripetitività, e pertanto a presentarsi come un gioiello ben levigato e rifinito, senza sbavature o angoli da smussare.
Il primo punto di forza è il robot. Fornito di un design accattivante, che ricorda gli antichi samurai giapponesi con le loro bardature possenti ed ermetiche, il Daikengo è in realtà un Majin, vale a dire un dio demoniaco, una definizione che – qualora non fosse chiaro a coloro che sono a digiuno dell’universo sfaccettato di Go Nagai – è un chiaro richiamo trasversale alla natura ambivalente di Mazinga (che deve il suo nome proprio alla parola Majin). E’ dunque la seconda volta nel pantheon intricato dei Super Robots che si allude con sfacciataggine ad una loro inquietante e sconcertante dicotomia: macchine di difesa capaci di gesta eroiche ed epocali che, però, potrebbero benissimo trasformarsi in strumenti di morte massificata nel giro di pochi secondi, con un comando accidentale o un repentino e coatto cambio di pilota. Il Daikengo si accosta al principio e si presenta come un Super Robot cosciente, dotato di un’anima che si “attiva” in presenza dell’energia di una cometa (la Stella del Guardiano) che transita nel sistema solare del pianeta Emperius ogni 950 anni. La coscienza del colosso resta un mistero per tutta la durata della serie, anche perché, in sostanza, il Daikengo è una macchina e deve essere essenzialmente pilotato per poter operare. L’unica manifestazione fisica di questa vita simil-divina a cui si allude è la sua bocca (retrattile), capace di assumere espressioni ed esprimere reazioni emozionali (rabbia e furore, più che altro); quindi, parliamo di una coscienza passiva ed empatica, un’angolazione più “spirituale”.
Sfortunatamente, Daikengo costituisce un’occasione mancata proprio in virtù di questa componente sfumata. Il concetto di Super Robot vivente fu originariamente partorito da Astroganger, una serie innovativa e rivoluzionaria del 1972 che esplorava l’idea e la nutriva, la svezzava, fino a renderla dirompente. L’Astroganger è, per l’appunto, un’automa gigantesco, nato da un metallo alieno dalle capacità “umanizzanti”, in grado di evidenziare e sottolineare la propria vita attraverso il pensiero attivo ed il dono della parola. Non solo, in una bizzarra eco all’inverso del Diapolon che verrà, l’automa/robot è persino in grado di “assimilare” la sua guida terrestre, il bambino Hoshi/Charlie, e dunque combattere in simbiosi mentale e fisica con lui – una variante geniale del concetto di pilotaggio che ha fatto praticamente scuola. Il Daikengo è un “genio cosmico”, ma l’idea è appena accennata e non esplode mai sullo schermo con tutti gli spunti ed i corollari che avrebbe potuto, ipoteticamente, offrire. Il risultato finale è un bellissimo robot convertibile e scomponibile, con un’estetica senza alcun dubbio grintosa e “cool”, che però tradisce quella che sembrava la sua premessa di base e dunque perde vistosamente terreno nel campo della memorabilità.
Per chiudere la parentesi, la serie sembra contenere un piccolo omaggio esplicito ad Astroganger nella figura dell’automa Spool (episodio 13), nell’ambito di un episodio davvero riuscito e significativo.
Il secondo punto di forza è l’ambientazione. Non più la Terra, né un pianeta alieno ma… il cosmo intero! Daikengo si avvale di un background spaziale di innegabile impatto, visitato in ogni sua sfaccettatura e soluzione narrativo-visiva. Si può quindi affermare che Daikengo sia una serie di “rottura”, specialmente per questa sua inusuale prospettiva geografica calata nel genere robotico: lo spazio come protagonista complementare dei personaggi, come tabula rasa su cui costruire eventi ad ampio respiro. Il pilota del robot, il principe Ryger, assieme al suo sgangherato team, è dunque un mero “filo di Arianna”, un conduttore, per potersi lanciare in un viaggio che presenta similitudini e parallelismi con tutti i viaggi epici e antichi della fantasia: Iliade, Odissea, Eneide. In questo percorso Omerico, Ryger combatte per rivendicare i propri ideali, contro tutto e tutti, addirittura avverso ai giochi diplomatici del suo stesso pianeta di origine, Emperius, di cui un giorno è destinato a diventare sovrano ultimo. La caratterizzazione dei personaggi, dai principali a quelli periferici, e delle varie “tappe” che il robot sostiene nella sua missione, è minuziosa e dettagliata, fattore che contribuisce definitivamente al pathos dei singoli episodi con una notevole dose di plausibilità e logica interna. Nonostante tale cura, i nemici (specialmente Lady Baracross e Roboleon) presentano un’urtante e fastidiosa somiglianza con gli avversari dello Zambot 3, un modello deliberatamente comico ed infantile che finisce per intaccare l’importanza e la tragicità insita nel viaggio del protagonista ed il suo team (Cleo, Anike e Otoke). Roboleon, in particolare, si presenta come l’immagine speculare di Bryking, arcinemico di Casshern/Kyashan; una sorta di cugino goffo e demenziale del tiranno metallico della Tatsunoko. Tuttavia, Daikengo sopravvive a questi errori grazie alla sua natura di grande gioco di “Space Risiko”, tra fazioni alleate e fazioni avversarie, intrighi rocamboleschi e dinamiche politiche interstellari. Il territorio, nonché campo di battaglia, del Genio Cosmico è uno spazio pieno di meraviglie planetarie e creature simil-mitologiche.
In questo turbinio narrativo che dondola con disinvoltura tra Star Wars e Star Trek, la componente robotica trova intanto una propria collocazione. I combattimenti del Daikengo sono formidabili, complice un mecha pressoché solido ed omogeneo, mai sotto tono. Il robot possiede una vasta gamma di armi dal design “napoleonico”, che riflette il tema visivo dei nemici. Anche il character design è inappuntabile, non perde mai colpi. Plastico ed accurato, trova il suo più splendido esempio nell’aspetto di Ryger, la cui criniera leonina precede, per molti versi, quella del supereroe tokusatsu Megaloman (1979).
Mondo dopo l’altro, spunta fuori anche la Terra, calata ai “giorni nostri”, coinvolta nella guerra in tre episodi distinti e separati (7, 17 e 22), interlacciati tra loro dalla presenza di un bambino terrestre, Sabu. Il secondo episodio assume tinte da Ultimatum sulla Terra e proietta il nostro popolo dritto dritto nelle fauci dello scontro cruento. E’ interessante pensare che l’autore, Hisayuki Toriumi, abbia voluto comunque fornire allo spettatore uno scenario familiare quale il nostro pianeta, affinché il muoversi erratico di Ryger non risultasse troppo alienante. Mi preme ricordare l’episodio 14, Fuori dall’orbita, decisamente poetico ed emozionante, che riprende diversi temi cari alla fantascienza classica con gusto e passione.
Insomma, Daikengo è una serie molto “americana” in termini di verve e rigorosità estetica, e non sfigurerebbe davvero sotto forma di fumetto anni settanta della Marvel (leggendo quest’ultima riga, avete improvvisamente visto davanti a voi l’immagine dei Guardiani della Galassia?! Se sì, allora non sto scrivendo inutilmente). La quintessenza di tale potenza concettuale da comic-book è riassumibile nella figura di Bryman, vigilante mascherato degli spazi, cyborg di pioneristica gloria, che in più di un’occasione salva la vita a Ryger e aiuta il team del Daikengo a superare le più disparate avversità.
Riguardo l’edizione italiana dell’epoca, sono soltanto due i fattori che meritano di essere ricordati. La voce di Ryger, Ermanno Ribaudo, imperiosa e ruggente, che ben si intona con la personalità irruente e coraggiosa del personaggio. Dunque, la famosa sigla del cartone, che intreccia splendidamente sintetizzatori e una sinuosa andatura ritmica, vocalmente interpretata da Lino Corsetti (in arte Simba) con piglio incisivo e fiero.
Spazio, ultima frontiera. Una maestosa astronave viaggia tra gli astri, un’astronave all’occorrenza capace di convertirsi in un robot gigantesco il cui ringhio risuona fra le galassie. La osserviamo mentre si allontana, verso nuove vicissitudini, alla ricerca di un modo per rendere l’universo un luogo libero e coeso. Per un attimo, un attimo lungo 26 avventure, siamo tutti con Ryger, perché il suo sogno di unità e fratellanza è in fondo il nostro.
Tiziano Caliendo: Classe 1977. Scrittore di fantascienza, blogger cinematografico, musicista e addetto ai lavori/manager nel campo musicale, impegnato nella fase di pre-produzione di un ciclo di novelle imperniate su un super-robot di sua invenzione: Quantaldian.