- Categoria: Critica d'Autore
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Una storia del panopticon – Un capolavoro mancato
di Giorgio Borroni. L’ospedale psichiatrico di Panopticon Bentham è un edificio antico, lugubre e austero. Un luogo perfetto per racchiudere la sofferenza dei suoi degenti, per contenerne la malattia, ma anche per diventare teatro di eventi sanguinosi e indicibili. Nel 1912 il direttore della struttura, il dottor Bonticou, decretò la morte di centinaia di bambini ricoverati per la tubercolosi con i suoi strani esperimenti esoterici, guidati dalla folle dottrina della setta Tillary... ma al giorno d’oggi la scia di sangue che quell’evento terribile ha lasciato dietro di sé è destinata a riaffiorare e ripetersi in modo ancor più efferato.
Alice Spark, moglie di un discendente di Bonticou, viene ricoverata al Bentham dopo essere stata accusata di aver ucciso i suoi bambini e suo marito: spetta al dottor Henry Auget interrogarla per stabilire se possa affrontare il processo, così, proprio quando il medico sperava in un trasferimento in un’altra struttura ospedaliera, si ritrova invischiato più che mai fra le decadenti mura del Panopticon. Come biasimare Henry per la sua voglia di cambiare aria? La sua carriera sta prendendo una brutta piega e i suoi colleghi riescono a essere persino più strambi degli internati: il dottor David Barnes è cieco da quando Julius, un paziente tredicenne che parla una lingua ancestrale, gli ha cavato gli occhi; il dottor Strauss, tossicomane e dal volto perennemente coperto da mascherina e occhiali da sole, non ha un umorismo tollerabile da un sano di mente; Susan Jeffries, ex moglie del capo del personale Genaro ha attacchi di rabbia e depressione da quando il figlio si è suicidato e mostra un attaccamento morboso a una bambina dalle turbe psichiche; infine, l’inflessibile quanto ambiguo dottor Genaro è il responsabile del suo mancato trasferimento.
Auget, dunque, non può far altro che eseguire gli ordini e iniziare le sedute con Alice Sparks, la presunta assassina, ignaro che questo riporterà alla luce il torbido passato della setta Tillary e darà inizio a una serie di strani omicidi; uno ad uno, i membri del personale del Panopticon Bentham vengono infatti ritrovati morti e marchiati con uno strano segno esoterico, mentre gli esami autoptici rivelano la presenza di corpi estranei al loro interno: dita umane.
Greg Ruth è un autore completo che fin da giovane trova spazio nel mondo del fumetto e dell’illustrazione grazie al suo tratto realistico e al suo stile darkeggiante, basato sui contrasti tra bianco e nero. Dal punto di vista grafico quest’opera ha davvero dell’incredibile: Ruth utilizza uno strumento impensabile per qualsiasi professionista come la penna bic coadiuvata solo da pochi tocchi di Photoshop, riuscendo a realizzare delle illustrazioni così suggestive da lasciare a bocca aperta. Vignetta dopo vignetta sembra infatti di trovarsi all’interno del Panopticon, respirare la sua aria malsana a tu per tu con la malattia mentale che lo pervade, mentre la caratterizzazione fisica dei personaggi è così rigorosa da renderli quasi presenze palpabili: ci troviamo infatti in una zona di nessuno che sta fra il fumetto underground realizzato con strumenti essenziali e un iperrealismo potente, quasi fotografico. Queste due caratteristiche che sembrano apparentemente in contrasto fra loro invece trovano il modo di coesistere, nelle atmosfere cupe, in bilico fra il mondo della follia con la sua visionarietà e quello della psichiatria con il suo approccio razionale o sul versante dei delitti , che pur nella loro matrice esoterica hanno anche un crudo risvolto di esami autoptici. Le facce di questa medaglia si rincorrono quindi sia sul piano della grafica, centrando in pieno il bersaglio, sia su quello della vicenda narrata, con risultati assai più discontinui. Nel dettaglio si può dire che Il lato più visionario è dichiaratamente quanto fortemente indebitato con il David Lynch di Eraserhead ed Elephant Man per quanto riguarda le ambientazioni, immerse nei toni cupi del bianco e nero e i personaggi-macchiette dall’aspetto bizzarro e dal carattere ancor più sui generis: basta prendere a esempio fra il personale medico il dottor Sjit, deturpato da un terribile eczema o fra i pazienti i gemelli mutilati di una gamba (uno con una protesi terminante in una ruota e l’altro con una a molla). Il lato invece più legato alle dinamiche fra i personaggi e alla loro interazione sembra derivare invece da The Kingdom di Lars Von Trier, con vicende che si incrociano in una escalation di assurdità sfociando di volta in volta nel macabro o nel comico demenziale. Purtroppo questa coesistenza di visionarietà e razionalità funziona, come ho già anticipato, solo sul territorio della grafica, perché nella sceneggiatura Ruth non riesce a trovare un equilibrio fra questi due fattori, dimenticandosi che si tratta di un fumetto e non di un film e che le tecniche narrative devono per forza essere diverse: ciò che funziona sullo schermo non può avere lo stesso effetto su carta. Ad esempio, se in un film di Lynch il far parlare al contrario i personaggi dà un’aura di mistero alla vicenda, in un fumetto impostare interi dialoghi al contrario non fa altro che rendere ostica la lettura, per quanto belle possano essere le tavole. La mancanza di equilibrio fra questi due aspetti è notevole anche nella struttura della trama, così frammentata da apparire spesso priva di un filo logico, anzi, quando (e se) le spiegazioni per determinati avvenimenti arrivano risultano fuori tempo massimo; il lettore spesso deve faticare non poco per riprendere i fili della storia, dovendosi barcamenare fra sette esoteriche, gemelli con i poteri extrasensoriali e bizzarri dottori più matti dei loro pazienti. Inutile poi dire che Ruth spesso vuole mettere troppa carne al fuoco, piazzando personaggi che sembrano fondamentali e che poi scompaiono per tutta la storia per riemergere solo alla fine, o flashback che vorrebbero essere esplicativi ma rischiano di intorbidare nuovamente le acque rendendo tutto ancor più caotico. Che dire poi di episodi al limite del demenziale, come un dottore cieco che salta su una moto e facendo la pinna va contro mano in autostrada uscendone illeso? O della battuta reiterata fino alla noia sul dottor Sjit chiamato per errore Shit? I dialoghi criptici possono funzionare all’inizio per incuriosire il lettore, ma la narrazione perché tenga ha anche bisogno che a un certo punto si schiariscano le acque e alla cripticità deve per forza seguire la chiarezza. Ruth invece sembra tenere questo senso di straniamento per tutta la vicenda, lasciando al lettore il compito di districarsi fra battute demenziali, frasi al contrario, lingue ancestrali e infine di scavare fra le cianfrusaglie per trovare qualche decodifica della vicenda, quando ormai la noia ha preso il sopravvento. Una storia del Panopticon sembra dunque una gigantesca occasione persa, dalla grafica superba, ma dalla trama che poi si rivela solo una accozzaglia di luoghi comuni rubati a Lynch e Von Trier per essere riassemblati maldestramente, evidenziando solo che l’allievo non è riuscito a superare i suoi maestri.
Una storia del Panopticon
di Greg Ruth
Editore: Comma 22
14 euro