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"Pagine Nomadi" di Igort evidenzia il senso di minorità patito dal fumetto

pagine nomadi igortdi Giuseppe Pollicelli*

Un verso del poeta russo Osip Mandel’štam, morto in un gulag nel 1938, recita: «Col mondo del potere non ho intrattenuto che vincoli puerili». Difficile interpretarlo in maniera univoca. Di sicuro un modo puerile di relazionarsi a un’entità che eserciti una qualche forma di potere consiste nel ricercarne, attraverso una contestazione apparente, l’approvazione o quantomeno le attenzioni. È un comportamento che spesso viene adottato dai figli, specie se molto giovani, nei confronti dei genitori. Ed è un comportamento che, sistematicamente, pone in atto il fumetto nei confronti della “cultura ufficiale”. Gli indizi di questo complesso d’inferiorità sono due. Il fatto che lo stesso mondo del fumetto, particolarmente in Italia, abbia approvato e agevolato il diffondersi dell’espressione “graphic novel”, che ha ormai finito per indicare, col suo esotismo nobilitante, il linguaggio fumettistico nel suo insieme (mentre un graphic novel è, propriamente, soltanto una storia a fumetti dalla lunghezza tale da poter essere paragonata a quella di un romanzo), e la tendenza degli autori di fumetti a farsi valutare da chi detiene le leve del sistema culturale attraverso opere che si occupino di temi “alti”, meglio se attinenti al sociale e alla politica.

La risonanza internazionale meritatamente ottenuta dal Maus di Art Spiegelman e dal Persepolis di Marjane Satrapi ha indotto il fumetto a sottostare, forse più del dovuto, al ricatto del contenuto e del messaggio. Ovviamente c’è differenza tra opera e opera, e qualunque generalizzazione sarebbe - come sempre - sbagliata. Tuttavia anche un libro bello e importante - e dalle caratteristiche insolite - come Pagine nomadi di Igort (Ed. Coconino Press, 176 pp, euro 16), conferma l’impressione che il fumetto sia, in questa fase, alla ricerca di un riconoscimento. Di Pagine nomadi, il cui sottotitolo è “Storie non ufficiali dell’ex Unione Sovietica”, bisogna prima di tutto dire cos’è. Si tratta del catalogo di una mostra milanese organizzata dallo IULM nello scorso mese di maggio e imperniata sui materiali (tavole, appunti, schizzi, riflessioni) che il fumettista sardo-bolognese Igort (al secolo Igor Tuveri) ha prodotto durante i lunghi periodi da lui trascorsi in Russia e in Ucraina a partire dal settembre del 2008. Magnificamente impaginato da Sara Fabbri, che si è ispirata alla grafica delle avanguardie russe dei primi del Novecento, Pagine nomadi svolge essenzialmente tre funzioni: documenta la genesi di due opere a fumetti di Igort da poco edite da Mondadori, Quaderni ucraini (2010) e Quaderni russi (2011); aiuta a fare luce - per mezzo di una lunga intervista a Igort che, in più punti, si trasforma in un colto diario di viaggio traboccante di considerazioni acute e intelligenti - sulla situazione attuale e sulla storia recente di due Paesi reduci dall’esperienza atroce del comunismo; ricostruisce la biografia e l’ormai trentennale parabola artistica di Igort medesimo. Il quale Igort, che è un narratore versatile e un bravo disegnatore dal tratto elegante (ma privo di una sua piena riconoscibilità: ci sono disegnatori meno dotati di lui il cui segno ha una personalità più forte), si è costruito con questo catalogo una specie di monumento in vita (la collana in cui il volume è uscito è infatti diretta da Igort stesso). Il che, beninteso, non costituisce un problema, poiché Pagine nomadi è, come detto, un libro ricco e prezioso, che non solo consente di comprendere meglio due fumetti notevoli come Quaderni ucraini e Quaderni russi ma spiega (e insegna) tante cose sull’URSS, sul socialismo reale, sul post comunismo e su personalità cruciali della storia russa e ucraina quali Čechov, Gurdjeff, Florenski, Paradjanov, la Politkovskaja. In cosa, allora, evidenzia anch’esso il senso di minorità patito dal fumetto? Pagine nomadi, certo, riprende i temi ardui e drammatici di Quaderni ucraini e Quaderni russi, è un’opera impegnata, ma va benissimo così. Lo scivolone di Igort sta nell’aver affidato uno scritto critico sul fumetto a Vincenzo Trione, valente storico dell’arte e collaboratore del «Corriere della Sera». Una firma prestigiosa e, dunque, “sdoganante”. Peccato che Trione, lo si evince dal suo intervento, di fumetto (che lui chiama “genere”, come se fosse il western o la fantascienza) non sappia nulla. Tant’è che nel suo contributo, per sostenere che i fumetti attingono anche da altri linguaggi e possono misurarsi con “tematiche profonde” (ma no!), fa riferimenti di ogni sorta - dalla giottesca Cappella degli Scrovegni a Duke Ellington - tranne che fumettistici. E le due sole volte in cui si azzarda a farli, incappa in sfondoni da matita blu, sbagliando il nome di Charles Schulz (il papà dei Peanuts), trasformato in Schultz, e affiancando del tutto impropriamente George Herriman (creatore, nel lontano 1913, della surreale strip Krazy Kat) a Will Eisner (attivo tra il 1936 e il 2005 ed effettivo pioniere del romanzo a fumetti), definiti entrambi “padri del graphic novel”.

Verrà il giorno in cui il fumetto smetterà di credere che, per essere legittimato, debba farsi maltrattare dal Trione di turno? Speriamo di sì. Vorrebbe dire che, con il potere, ha iniziato a intrattenere vincoli meno puerili.

*Articolo apparso sul quotidiano Libero del 04/08/2012. Per gentile concessione dell'autore.

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