Ci ho messo un po’ a riprendermi da quando, a metà Aprile, lasciai un vecchio e caro amico, appena rivisto dopo tanto tempo, colpito a morte, appoggiato alla ruota di un conestoga, ad attendere l’ultima alba che avrebbe avuto l’opportunità di vedere. L’avevo ritrovato da pochissimo e l’ho subito perduto. Per sempre. Così se n’è andato Ken Parker, “fin dove arriva il mattino”, in un’alba che immagino fredda e livida, in un accampamento che presumo lercio e puzzolente, molto lontano e diverso da quegli spazi aperti e incontaminati che aveva tanto amato: le Montagne Rocciose profumate di neve fresca in inverno e le sterminate praterie fragranti di fieno in estate, luoghi dove tante volte mi aveva condotto con sé. Così ha terminato la sua vita letteraria uno dei personaggi più belli e “grandi” della Letteratura Italiana della seconda parte del Novecento, protagonista di un’epopea narrativa palpitante e poetica, intensissima e dolcissima, capace al tempo stesso di tracciare grandiosi affreschi storici e ritratti intimissimi dei personaggi, sempre cesellati a tutto tondo anche se secondari nella complessità della saga.
Terminata la lettura dell’ultimo numero, colpito al cuore dal finale terribile, me la sono prima presa con Giancarlo Berardi, il creatore letterario, e subito dopo con il creatore grafico, Ivo Milazzo. Poi ho trascorso un paio di giorni con un peso sullo stomaco simile a quello che si ha quando si perde un caro amico. E nei giorni seguenti ho interiormente inveito un po’ contro tutti coloro che ritenevo correi del misfatto, la Mondadori in primis. Mi aspettavo tante cose da questa storia annunciata da tantissimo tempo, che avrebbe dovuto finalmente chiudere un cerchio lasciato incompiuto negli ormai lontani anni Novanta, ma non un finale così. Mi sono posto molte domande al termine della lettura, quasi come se Ken Parker non fosse solo un personaggio di fantasia e Berardi si fosse comportato come un Demiurgo crudele che si accanisce sui destini delle sue creature: perché nella sua ultima storia Ken Parker non era circondato dai suoi affetti? Perché vagabondava come un reietto nel West, proprio lui che aveva così tanti amici e persone care, lui che era stato una persona leale, idealista, pulita? No, non era giusto. Il Demiurgo Berardi aveva riservato davvero un destino iniquo al suo figlio più “bello e buono” (per dirla come gli antichi greci definivano i loro eroi).
Avevamo lasciato, tanti anni fa, Ken Parker in prigione. Eppure, in virtù delle sue virtù, anche lì iniziava ad avere un certo riconoscimento della sua caratura umana e morale, e poi aveva iniziato a scrivere racconti e romanzi western di un certo successo, che lo stavano imponendo come scrittore abbastanza noto. Avevamo lasciato il suo figlio adottivo, i suoi amici, i suoi cari, che sentivano disperatamente la sua mancanza e si prodigavano per cercare di fargli avere condizioni di vita migliori. Perché invece di scrivere l’ ultima storia partendo da qui Berardi aveva deciso per una cesura così netta? Perché la fine di una saga così grandiosa e corale doveva ridursi a una storia così “piccola”, claustrofobica? Perché dopo tanta luce, tanta speranza, tanti sogni disseminati per tutta la serie, affidare il finale a quest’ultima storia così cupa, disperata, oscura? Ricordo di aver letto, mentre la sua ultima serie Bonelli veniva ancora pubblicata, un’intervista a Berardi in cui egli lasciava quasi presagire che Ken sarebbe uscito di prigione e avrebbe trovato il suo “buen retiro” in Oceania: mi sembrava un finale congruo, il finale meritato. Un happy end che avrebbe compensato l’eroe di tutte le sofferenze patite. Il finale GIUSTO, ecco.
Poi, preparandomi per andare in ufficio in una mattina qualunque di pochi giorni fa, una di quelle mattine in cui non sogni nulla e neanche pensi, ma fai tutto in automatico, come se i gesti e i pensieri non ti appartenessero, mi sono guardato allo specchio e in un attimo, come in una folgorazione, è stato evidente che di quel bambino prima e di quel ragazzo poi che ero stato ed era stato amico, tanti anni fa, di Ken Parker, non era rimasto nulla. E anche del mio mondo reale che faceva da controscena al mondo narrativo di Ken, non era rimasto nulla: i sogni, gli ideali, le speranze, i progetti di viaggi, avventure e amori, le amicizie fraterne e indissolubili degli anni ’70 e poi ’90, si erano sgretolati sotto i colpi delle disillusioni vissute giorno dopo giorno, mese dopo mese, sotto il maglio della presa di coscienza che non c’è poi tutto questo spazio per gli idealisti, gli onesti, i sognatori. E ho compreso, all’improvviso, che Ken Parker, quel Ken Parker della nostra giovinezza, era rimasto così disperatamente solo a inseguire le sue utopie e i suoi ideali che, proprio per questo, non poteva far altro che scomparire, lasciarci, in maniera malinconica e triste, lentamente, dinanzi a un’alba che stenta a venire, proprio come ciò che eravamo ha, con gli anni, lasciato noi stessi.
E allora mi è parso di comprendere la grande malinconia che deve aver attanagliato Berardi mentre scriveva quest’ultima storia, mentre con grande onestà intellettuale assegnava anch’egli il giusto finale, tramite la sua creazione letteraria più grande, ai sogni della sua giovinezza. D’altra parte a chi, se non al creatore del personaggio, poteva svelarsi quale fosse l’unica conclusione possibile: in fin dei conti non è stato Ken Parker a morire per primo. Noi eravamo già morti, siamo morti piano piano durante tutti questi anni crudeli, nei quali abbiamo assistito senza (poter) muovere un dito ad abissi di corruzione, di abiezione, di malaffare, di massacri, di consumismo, di superficialità dilagante e più disperata di una tormenta sulle montagne del West.
Così ho riletto “Fin dove arriva il mattino” da questo nuovo punto di vista e sono stato colpito soprattutto da due eventi nella storia. Il primo è quello della violenza sessuale verso una giovane ragazza che si consuma mentre Ken Parker (ormai vecchio e acciaccato, che non ha più i sensi vigili di un tempo) dorme: alla prima lettura mi ero stupito di quanto Berardi avesse infierito nel descrivere così appannati i sensi di un vecchio “mountain man”, ma poi mi è parso di vedere in quell’episodio una metafora di ciò che il “sistema” (diciamo così per non addentrarci in più complesse analisi sociologiche) ha fatto alla nostra innocenza, alla nostra purezza, presa, a mano a mano che il tempo passava, con la forza della necessità, mentre noi eravamo quasi incoscienti, quasi ipnoticamente addormentati. Il secondo episodio importante è nel finale, quando sarà quella stessa ragazza a sparare il colpo mortale a Ken, sarà quella stessa innocenza perduta, completamente disorientata per la violenza subita (resa benissimo nella storia dalla descrizione del malato rapporto affettivo che legherà la vittima al suo carnefice), ad uccidere l’unica persona in grado di “liberarla”. Lei, ormai interiormente e psicologicamente sofferente, mentalmente logorata, non sarà in grado di riconoscere la “libertà” e confonderà, con esiti drammatici, carnefice e salvatore. Non ho forse fatto io la stessa cosa con i miei sogni di un tempo? Non ho forse “ucciso” e dimenticato libri, canzoni, poesie, profumi di montagne? Cercato la mia strada su un sentiero grigio che in realtà mi tiene saldamente prigioniero?
L’ultima storia di Lungo Fucile (come gli indiani chiamavano Ken) non mi è piaciuta, nella maniera più assoluta: la trovo completamente avulsa dal resto della saga. Anzi, contraddittoria rispetto a essa: in “Fin dove arriva il mattino” sembra quasi si neghi tutto quello che Berardi e Milazzo, tramite Ken Parker, avevano voluto mostrarci lungo tutto lo splendido cammino fatto insieme. Proprio come non mi sono piaciute, a bizzeffe, molte cose accadute negli ultimi vent’anni: dalle bombe intelligenti sull’Afghanistan fino a oggi, a “Mafia Capitale” (tanto per fare un esempio dalla cronaca). Tutti fatti che però ho accettato senza battere ciglio, troppo occupato a percorrere alla meno peggio la mia strada in penombra, tre le storture del mondo.
Ma allora la lunga saga “Ken Parker” è stata inutile? No, assolutamente: per quanto mi riguarda rimane lì in bella vista, in attesa che tra qualche anno la mia pupetta inizi a sfogliarla e possa trovare tra quelle pagine un’eco delle emozioni, dei sogni, degli ideali che inevitabilmente le si agiteranno nel petto, che quelle pagine possano aiutarla a comprendere quanto non sia sola nel provare passioni giuste e limpide, e quei personaggi diventeranno suoi buoni amici e quelle storie accenderanno in lei nuove emozioni. E sono sicuro che accadrà così in mille e mille altre famiglie, e Ken e la sua avventura saranno ancora vivi, ancora palpitanti, ancora in grado di raccontare, insegnare, emozionare, come È DESTINO dei grandi personaggi della letteratura. E allora, forse, anche il finale sarà da riscrivere, perché quello “giusto” per la mia generazione non è detto lo sia anche per la prossima: non è detto che il tempo o lo spazio “fin dove arriva il mattino” debbano essere per sempre gli stessi.
Grazie Giancarlo, grazie Ivo. So long.